Noi infermieri che lavoriamo nella cronicità non salviamo vite. Abbiamo la presunzione (e pure le competenze) di accudirle e sostenerle. È vero: io non salvo vite. Le incontro, le vite, le ascolto, assisto alla loro ricostruzione. Perché la malattia cronica è come un terremoto o forse come un ladro: ti sorprende, ti confonde, ti ruba frammenti di te stesso, ti senti smarrito, sai che la tua vita non sarà più la stessa, hai domande, tante, e poche risposte. Restano le macerie dalle quali bisogna ripartire con un ospite indesiderato, ma con il quale è possibile convivere.
Perché la vita di un malato cronico non si salva dalla malattia
Mi piacciono le serie televisive che riguardano il mondo sanitario, i cosiddetti “medical drama”. Non me ne sono persa una, dalla più buonista alla più cinica. I protagonisti, ovviamente, sono i medici, supereroi con il camice che salvano vite.
Ultimamente c’è la corrente dei supereroi “cattivi”, che però sono sempre eroi tra cui pure i medici, cattivi ma geniali e che comunque, di nuovo, salvano vite. Poi ci sono gli specializzandi, impegnati in manovre (infermieristiche) come mobilizzare il paziente, eseguire un prelievo, registrare parametri, addirittura manovre igieniche (che da noi nel mondo reale fanno solo gli OSS).
Gli infermieri non ci sono mai, se non per obbedire agli ordini del medico (qualche regista temerario li fa anche disobbedire) oppure come protagoniste (femmine, ovviamente), nella migliore delle ipotesi, di intrecci amorosi e, nella peggiore, di squallide storie di sesso.
Il supereroe, anche lui, ha delle debolezze. Tutte sono accomunate da uno slogan che troneggia indiscutibile, ineluttabile, sublime: noi salviamo vite
.
Io lavoro da molti anni (troppi) dentro una realtà difficile e ostile, io lavoro “dentro la malattia cronica”.
Sono un’infermiera... ma non salvo vite. Perché la vita di un malato cronico non si “salva” dalla malattia di cui è affetto, la cui crudeltà sta nel fatto di non farti morire, non subito almeno, ma di restare dentro con la pretesa tu la conosca, che dialoghi con lei.
La malattia cronica ti chiede di convivere dentro un tempo costante e immutabile in cui si può trascrivere l’inizio della storia ma non la fine
Io non potrei mai lavorare in dialisi
, mi dicono i miei colleghi impegnati nell’azione. Perché?
, chiedo io. Troppo routinario, i pazienti sempre gli stessi… son particolari i dializzati. Sanno tutto loro, ti vogliono insegnare a fare il tuo mestiere.
È vero: io non salvo vite
Attacco il paziente ad una macchina, sempre la stessa macchina, sempre lo stesso paziente; lo controllo, nel frattempo ci parlo un po’ con il rischio di perdere il “sacro” confine tra professionista e paziente, con il rischio di farci amicizia e poi lo stacco, per giorni, mesi, anni…
Deprimente? Frustrante?
Quelle poche volte che nei medical drama - che mi piacciono tanto - hanno trattato l’insufficienza renale e la dialisi, il paziente sarebbe morto sicuramente, ma per fortuna e grazie ad un efficientissimo sistema sanitario, nel giro di pochi giorni il paziente spacciato ha ricevuto il trapianto di rene e tutto si è risolto: vita salvata.
È vero: io non salvo vite. Le incontro, le vite, le ascolto, assisto alla loro ricostruzione. Perché la malattia cronica è come un terremoto o forse come un ladro: ti sorprende, ti confonde, ti ruba frammenti di te stesso, ti senti smarrito, sai che la tua vita non sarà più la stessa, hai domande, tante, e poche risposte. Restano le macerie dalle quali bisogna ripartire con un ospite indesiderato, ma con il quale è possibile convivere.
elisabetta.salvi
1 commenti
La lentezza...
#3
Bellissimo articolo, condivido in pieno!! Assai azzeccata, a mio avviso, la tua considerazione sulla "lentezza": probabilmente, proprio per il settore in cui operi, la lentezza è intesa davvero nel senso temporale del termine, ma credo sia possibile allargare l'uso di questo prezioso sostantivo anche laddove i ritmi frenetici tentano di impedircelo. Lentezza intesa come "imparare a sfruttare ogni secondo a contatto con le persone (il termine "paziente" mi ha un tantino stancato) imparando ad ascoltare e a vedere non solo con le orecchie e gli occhi, ma anche con il cuore. 10 minuti per ogni persona sono pochi, sì, ma possono bastare...