Resto seduta su un divanetto. Tutti parlano. Cerco di seguire i loro discorsi. La mente se ne va. Ascolto e non sento. Nessun lamento arriva, nessun rumore che mi indichi che sono dentro ad un Hospice. Quella parola che quando le persone la pronunciano lo fanno sempre abbassando la voce e scuotendo la testa. Parola che tutti usano per indicare il luogo dove si va solo a morire. Ma io ho scoperto che qui, all’Hospice “La Limonaia” di Lamporecchio, accolgono davvero amorevolmente la Persona. Che rimane tale. Sempre. Mai un numero. Mai un caso. Grazie ragazzi. Ah, io sono Lucia. Sono una scrittrice e pittrice. Amo da morire (buffo dire così) la Vita e sono impegnata a viverla al meglio. E sono anche una paziente oncologica.
Fantasmi: il mio viaggio verso quel luogo in cui non si va solo a morire
Sei sicura che ci vuoi andare? Non ti farai del male? Dillo, che ti porto a Firenze…
Sì, sì, sono sicura… Sto bene
.
Da più di venti giorni ho la mente in subbuglio, il cuore che batte fortissimo e mille sentimenti che mi scoppiano dentro. Ma non ho parlato mai con nessuno.
Solo io avrei dovuto decidere. Nessuna interferenza. Nessuno mi avrebbe dovuto spingere verso la rinuncia (dando così forza alla paura), né alla conferma (dando forza ad un coraggio che ancora si nascondeva).
Per fortuna mi era venuta in soccorso la sorte e i miei giorni si erano caricati di impegni e di programmi inattesi, non permettendomi, così, di pensare troppo. Ma alla sera…
Alla sera tornavano quei fantasmi e la voglia di telefonare, di scusarmi, di dire che no, non ce la facevo. Che non ci saremmo visti. Che avevo bisogno ancora di tempo.
Ma quel tempo, lo sapevo bene, non sarebbe mai arrivato se non lo fossi andato a cercare io. E allora basta: avevo deciso. Sarei andata. Non ci sarebbero più stati tentennamenti. In fondo io voglio sempre guardare in faccia i fatti della vita. Siano essi belli, meravigliosi, splendidi, quanto tristi, tetri, paurosi.
E poi non sarei stata sola. Marco e Rosy mi avrebbero accompagnata e nel pomeriggio anche Alba ci avrebbe raggiunti. Amici di cuore. Amici sui quali poter contare. Quelle persone che sanno i tuoi bisogni anche senza chiedere. Cosa rara, di questi tempi.
E là, ad attendermi, avrei trovato persone di cui avevo intuito il cuore, di cui sapevo poco, ma di cui il mio istinto mi portava a fidarmi. E raramente sbaglio. Non potevo certo fallire ora.
Un cancello di ferro battuto sembrava dividere la Vita da un’altra Vita
Siamo arrivati a metà mattina. La strada, appena lasciata Pistoia, ci aveva subito portati in mezzo a campi ben coltivati, a vivai che facevano bella mostra di piante ordinatamente allineate. Le colline si avvicinavano sempre più e ben presto l’auto guidata da Marco aveva iniziato a salire. Un paesaggio dolce e adornato da ulivi sembrava abbracciarci.
Io guardavo dal finestrino e la mia mente aveva ricominciato a volare per conto suo. “Tutto bene?” I miei compagni di viaggio s’interessavano premurosi e mi portavano con i discorsi a ragionare di altro, quasi come ad erigere una barriera fra me e i fantasmi che ancora non volevano lasciarmi.
Un silenzio rotto solo dal ronzio lontano di qualche insetto intento a volare più in là mi aveva accolta. Davanti una villa dall’aria antica. Fiori, tanti. E un cancello di ferro battuto sembrava dividere la Vita da un’altra Vita.
La Vita dove frenesia, fatica, indifferenza, amore, lavoro, sofferenza, gioia, lacrime e sorriso hanno valenze sempre più o meno positive, ma ormai purtroppo lontane da una Vita dove, forse, la dignità è spesso dimenticata. Dove tutti vorrebbero delegare. Dove tutti vorrebbero non arrivare mai a doverla attraversare. Dove la paura il più delle volte la fa da padrona.
E io sono entrata così, con la paura ancora nel cuore. Accolta dal sorriso di Rosella e di Tina, dall’abbraccio del dr. Bologna, dagli sguardi curiosi delle persone in carrozzella e subito accompagnata verso quello che - scoprirò un attimo dopo - è il soggiorno, la cucina, il luogo dove spesso insieme mangiano. E fanno festa. Salutano un compleanno, si scambiano la leggerezza di un attimo sereno.
Colori che sanno poco di ospedale e di malattia, dipingono le pareti e le grandi finestre permettono allo sguardo di correre verso un paesaggio mozzafiato. Tutta la Piana della Valdinievole appare ai piedi della collina e sembra voler regalare quella pace, con i suoi colori tenui, che la malattia ha sfacciatamente rubato.
Un tavolo imbandito e fiori erano stati stati preparati per noi. Non ho fame. La mente e il cuore sono alla ricerca di un qualcosa che ancora non so, ma che voglio scoprire.
Resto seduta su un divanetto. Tutti parlano. Cerco di seguire i loro discorsi. La mente se ne va. Ascolto e non sento. Nessun lamento arriva, nessun rumore che mi indichi che sono dentro ad un Hospice. Quella parola che quando le persone la pronunciano lo fanno sempre abbassando la voce e scuotendo la testa. Parola che tutti usano per indicare il luogo dove si va solo a morire.
Certo non sembra un posto intriso di fredda sofferenza, di dolore tenuto a bada con i farmaci. No. Questa sembra una casa. Una famiglia allargata. Hanno ancora gli occhi lucidi e Rosella è come sfinita. C’è stato poco prima un ricovero. Un ragazzo. E la madre non lo voleva lasciare. Ma anche lei era sfinita.
E allora Rosella e le sue infermiere si erano prodigate per più di un’ora per tranquillizzarla, per farle capire che portare ansia e disperazione avrebbe fatto solo male a quel figlio sfortunato. Che anche lei, ammalata e sola da poco tempo e già con la prospettiva di dover perdere anche quell’unico figlio, aveva bisogno di un respiro. Di un’ora di riposo. E l’avevano convinta. Le ho ascoltate e avrei voluto abbracciarle tutte.
Mi sono chiesta se chi è nei luoghi di potere decisionale sa a che missione (non è lavoro questo, è ancora qualcosa di più nobile) ogni giorno queste persone sono chiamate…
Il dr. Bologna mi salva dai miei pensieri e comincia a spiegarmi che il luogo dove ora c’è l’hospice era una limonaia, che il tutto faceva parte di un lascito che con generosità era stato donato dall’ultimo discendente di una nota famiglia, deceduto senza eredi diretti.
Mi racconta di com’era originariamente. Dei lavori fatti e io… Io mi dimentico della paura, delle ansie degli ultimi tempi, dei tanti dubbi e mi sento a mio agio.
Ogni stanza ospita un nome, una dignità, una sofferenza, una storia
I fantasmi sono più lontani e non ritornano nemmeno quando sulla soglia della porta si presenta un paziente in carrozzella. Ha sentito chiacchierare, ha sentito la voce del medico. Voleva salutare.
Non si vuole fermare. Non vuole evidentemente essere invadente. Perché lui è ancora una persona che sa stare a questo mondo. È una Persona educata, esattamente com’era prima, prima di indossare, forse, l’ultimo pigiama di questa sua Vita.
E ora che sono serena comincio davvero a guardarmi attorno.
Le porte… non ci sono? Oh sì, le porte ci sono, ma come in una casa colma di affetto e d’amore sono aperte. Nessun muro divide nessuno. Il silenzio non è freddo, asettico come in certi reparti d’ospedale. Come in certi hospice ricavati in ali di ospedali più o meno moderni.
Non ci sono spigoli di cattiva comunicazione. Qui tutto sembra circolare, tondo. Come il cuore, come un viso che sorride, come gli occhi attenti, come gli abbracci regalati, come i nomi pronunciati
Perché le stanze non hanno numeri. Fuori da ogni stanza c’è l’immagine di un agrume (era una limonaia, giusto?) o di una pianta aromatica. E ogni stanza ospita un Marchino, un Giorgio, una Paola, una Maria, una Persona con il suo nome, la sua dignità, la sua sofferenza da aiutare a non diventare invadente, la sua storia.
E ogni stanza ospita anche un familiare che, se vuole, può dormire con il proprio caro. E se lo vogliono quel Marchino, quel Giorgio, quella Paola o quella Maria possono anche avere accanto il pelosone che negli ultimi anni aveva fatto loro compagnia. Perché le stanze sono grandi, accoglienti, luminose. Come quelle di casa. E sanno di buono.
Mi portano a fare il giro di tutto il complesso. Tre piani dove si respira normalità.
Ma questo non doveva essere il luogo dove la morte regna sovrana? Dove paura e urla e disperazione e rabbia invadono tutto?
Certo c’è dolore. Certo, la disperazione di chi resta c’è. Ma è una disperazione “aiutata”. Tutto sembra composto. Tutto sembra naturale.
Capisco che dipenda dalle persone che ci lavorano, da quelle loro idee che difendono con i denti. Dalla loro consapevolezza e il mio cuore li ringrazia.
I miei fantasmi non ci sono più
Passo davanti alle camere dove ogni letto è occupato dal dolore e dai pensieri di una Vita ormai lontana. Mi guardano. Sorrido. Mi rispondono sorridendo.
E scopro anche che quel signore in carrozzella, passato poco prima dal soggiorno, è in visita a una compagna in questa sua ultima terrena avventura. Una signora che la medicina ufficiale aveva già data per morta più di un mese fa, ma che l’attenzione, la capacità e l’amore che la circondano le stanno ancora regalando dei giorni sereni. Così sereni da chiacchierare, chissà, di un tempo lontano, dove era bella e forte e, forse, innamorata e felice.
E scopro anche che esiste un Quaderno dei pensieri. Sembra quasi un tomo da quanto è pieno di fogli, di lettere e pezzi di carta scritti fitti fitti. Sono le emozioni fissate dai congiunti di persone che con dignità se ne sono andate, ma anche pensieri di chi sa essere giunto ormai al capolinea.
Sono pensieri quieti, sereni, dolci, pieni di gratitudine verso chi, per quel tempo più o meno breve, ha saputo accoglierli, amarli, ascoltarli. Ha saputo prendersi Cura non solo di un corpo sfinito, sfatto, massacrato, mangiato dalla malattia e dal dolore, ma anche di quei momenti difficili dando loro la mano.
E così leggo molte volte “mi sento al sicuro”, oppure, da parte di una figlia che ha perso il padre, “mi avete aiutato a trasformare il dolore in un lieve ricordo”.
Perché Cura, prendersi Cura deve avvenire anche, soprattutto, nel momento della Morte. In quell’ultimo atto in cui un Uomo non ce la fa più. Dove chi ti ha amato e ti ama non ce la fa più. E allora quei “ricoveri di sollievo” diventano importanti. Diventano un atto di Cura.
E qui, all’Hospice “La Limonaia” di Lamporecchio, accolgono davvero amorevolmente la Persona. Che rimane tale. Sempre. Mai un numero. Mai un caso. E anche i familiari ricevono attenzioni e loro, come se quello sfogo avesse dovuto avvenire molto tempo prima, il più delle volte raccontano con irruenza e senza vergogna fatti e situazioni di una vita ormai lontana, sapendo che qui un dott. Bologna, una Rosella, una Lucia, una Tina, una Daniela, un Roberto, un… saranno capaci di ascoltarli.
Qui delle Persone saranno in grado di accogliere altre Persone, dando loro i tempi giusti, il tempo necessario per non perdersi.
Al di là di chi contesta quel tempo di “consegna”, quell’affiancamento di orario nel momento del cambio turno, come fosse un “tempo perso”. Un tempo “inutile”.
Forse chi asserisce ciò, dovrebbe un momento fermarsi e pensare a cos’è un Uomo. Chi è Uomo.
I miei fantasmi non ci sono più. Li ho cercati. Erano solo stati un’idea sbagliata. Perché ora so che c’è chi con devozione sa rendere un momento così difficile, un momento sacro e dignitoso
Non ho più paura. Forse anche lei era solo frutto di poca conoscenza, poca consapevolezza. Solo frutto di ignoranza. Di vigliaccheria. Di una fragilità che questa balorda società vuole a tutti i costi tenere in vita. Una società che nega in continuazione la Morte, come se la stessa non facesse parte della Vita.
Grazie ragazzi.
Ah, io sono Lucia. Sono una scrittrice e pittrice. Amo da morire (buffo dire così) la Vita e sono impegnata a viverla al meglio. E sono anche una paziente oncologica.
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