A centoventi giorni non sono più un pacchetto di pasta
I genitori ci dicono che le infermiere di sopra sono straordinarie con i loro bambini e che noi al piano terra siamo fantastiche ad avere invece attenzioni per loro .
La voce si incrina un poco, si commuove ripensando ai quattro mesi trascorsi in ospedale in cui è stato sempre al fianco della moglie. La figliola non soltanto era prematura ma ha subito vari interventi chirurgici. Allo stomaco, due volte. All'intestino. Persino al cervello.
È andata in sofferenza per salvare il fratello in un parto gemellare dove non c'era più tempo e spazio. Hanno salvato la mamma e il maschietto, lei è uscita per ultima restando troppo nel grembo.
Sono tanti i papà e le mamme che passano nel nostro ambulatorio per fare un antigene rapido o un molecolare prima di salire in reparto per far visita ai loro figli così da tutelare i bambini prematuri, anche quelli degli altri.
Li chiamiamo affettuosamente “Papà e Mamma TIN”, Terapia Intensiva Neonatale . I loro bimbetti pesano talvolta anche cinquecento grammi, stanno in un palmo di mano e, tra le creature fragili, sono certamente le più delicate. Sono quelli nati prima di aver raggiunto le 37 settimane di età gestazionale.
Capita per varie ragioni, spesso legate a fattori di rischio materno (ipertensione , diabete , cardiopatie , ipertiroidismo , malnutrizione, abuso di alcol e fumo di tabacco), stili di vita inadeguati (stress, lavoro intenso, alimentazione in stile fast food), predisposizione genetica.
Parti gemellari e fecondazione assistita hanno un tasso di nati prematuri molto alto, rispettivamente del 50% e del 30%. Secondo le stime, rappresentano il 5-10% di tutte le nascite. Ogni anno nel mondo nascono prima del termine circa 13 milioni di bambini, mezzo milione nella sola Europa. In Italia sono il 7,2%, circa 38.500. Dai dati delle Nazioni Unite emerge che un bambino su dieci che nel mondo nasce prematuro ha complicazioni potenzialmente letali, responsabili di circa un milione di decessi.
Queste coppie, a volte insieme a volte da soli a seconda dei tempi di vita, vengono ogni giorno ad accarezzare, abbracciare e massaggiare i corpicini dei loro figli perché recenti studi hanno dimostrato l'importanza della cura, non solo medica, ma genitoriale per i bambini pretermine.
Anche ascoltare la voce e il silenzio di mamma e papà, parte essenziale della terapia di accudimento, li aiutano a crescere sino a raggiungere il peso ideale. La loro presenza e vicinanza promuove non solo la sua crescita fisica ma anche quella psichica, fondamentale per la costruzione della sua relazione con i genitori.
È stato documentato inoltre che lo sviluppo psichico di un bambino pretermine è fortemente influenzato anche dal contesto in cui si trova a vivere nei primi momenti di separazione dalla mamma.
A volte mi chiedo come facciano le infermiere della Terapia Intensiva Neonatale a prendersi cura di un corpicino che ha il peso lordo di un pacchetto di pasta di grano duro, come li chiama teneramente la mia collega Lorella.
Il loro peso è considerato estremamente basso quando è inferiore a un chilo ma è già basso se è meno di 2 chili e mezzo. Sono bambini particolarmente vulnerabili che hanno bisogno di cure ed attenzioni speciali. In assenza di gravi patologie vanno portati il più fisiologicamente possibile dalla prematurità alla maturità.
Hanno la pelle sottile, il tessuto sottocutaneo scarso, il cranio voluminoso, i capelli fini, gli occhi sporgenti e il tronco coperto da peluria. Sono itterici ed hanno mani e piedi freddi per la difficoltà a mantenere la temperatura corporea. Quelli che pesano come due pacchetti di pasta possono andare incontro a complicanze perché tutti gli organi, gli appartai e i sistemi sono immaturi.
Hanno soprattutto difficoltà respiratorie con crisi di apnea e displasia broncopolmonare. Emorragie endocraniche. Ipoglicemia, anemia, enterocolite necrotizzante, retinopatia. Rischiano infezioni gravi sino alla sepsi. Si nutrono per via parenterale fintanto che non tollerano il latte.
Lorella ed io siamo infermiere da adulti
Abbiamo lavorato tanti anni in Pronto soccorso, in endoscopia digestiva, in otorinolaringoiatria, in oncologia. Qualcun'altra nel nostro gruppo infermieristico persino nelle carceri e in medicina fisica riabilitativa con i pazienti tetra e paraplegici.
Nonostante il nostro background ci ritroviamo a commuoverci ogni volta ascoltando le storie di questi bambini . Ci rendiamo conto che mamme e papà hanno un gran bisogno di parlare e che basta un come sta? aggiungendo il nome del bimbetto di turno, a farli aprire, raccontandosi.
I genitori ci dicono che le infermiere di sopra sono straordinarie con i loro bambini e che noi al piano terra siamo fantastiche ad avere invece attenzioni per loro. Ascoltiamo, incoraggiamo, facciamo il tifo, gioiamo ad ogni etto in più. Forse è perché siamo tutte mamme con il valore aggiunto di essere infermiere.
A casa, a parenti ed amici, o al lavoro ai colleghi ho provato a spiegare la nostra fatica e la nostra paura. Non c'è niente da fare. Voi capite, loro no , ci svela il papà con i capelli rossi ed il casco in mano. Viene in moto per raggiungere prima l'ospedale tra il traffico cittadino.
Ci sono papà e mamme che vengono anche da lontano, fuori provincia e fuori regione, talvolta anche dall'estero se i bimbi che nascono prima sono di coppie in vacanza dalle nostre parti. Grazie, grazie infinite per quello che fate , il papà torna indietro a salutarci attardandosi ancora per un ultimo incoraggiamento sulla porta. Ci guardiamo un po' stupite, in fondo stiamo solo ad ascoltare, a farli sorridere e a dare un po' di coraggio. Lorella, tra noi, è quella che ci riesce meglio. Le viene spontaneo, è lei che mamma e papà cercano più volentieri. Dispensa dosi di buon umore e pillole di speranza.
Non li abbiamo mai visti eppure ne conosciamo i nomi
Sono di tutte le nazionalità. Li abbiamo imparati a memoria, naturalmente, leggendoli sulle etichette meccanografiche del ricovero. Mamma e papà vengono qui da così tanto tempo che riusciamo ad associare un Adam o una Isabella al volto dei loro genitori che abbiamo di fronte.
Ci sono “pacchetti di pasta ” che hanno due cognomi e quattro nomi di battesimo, tanto sono importanti. La maggior parte ne ha uno soltanto, com'è costume in ogni parte del mondo. Alcuni sono lunghissimi ed impronunciabili, come quelli del Bangladesh. Poi c'è un pacchettino dello stesso peso, made in India, che però non ha nessun nome.
Pesa poco , ci confida il papà scuotendo il turbante nero di fronte alla nostra perplessità. Ci fa capire, con un misto di italiano ed inglese, che il suo bambino è senza nome perché non viene considerato ancora un bambino fintanto che non cresce del peso giusto. Nella sua cultura, insiste, non ha ancora diritto ad un nome perché è nato prima del tempo. Come fosse una colpa e non una sventura.
Mi si strugge il cuore, penso che quel papà non voglia dargli un nome soltanto per non dover soffrire troppo qualora il figliolo non dovesse crescere abbastanza per sopravvivere, così da non affezionarsi. Forse è più facile dimenticare la perdita di un figlio se non sai come chiamarlo quando ti viene da pensarlo e da piangerlo. E ti conforti dicendoti che era semplicemente troppo piccolo per amarlo.
Non li abbiamo mai visti i bambini pretermine, eppure, ne conosciamo le storie di vita, dal travaglio sino ad ogni progresso che per quanto piccolo non è mai insignificante. Intanto ha raggiunto un chilo. La mattina ho ripreso ad andare a lavorare, non ha senso che stia in ospedale tutto il giorno. So che Giulia è in buone mani con le infermiere , ci racconta una mamma.
La vedo più serena dei primi tempi quando veniva triste e con il viso sciupato da lacrime e notti insonni. Ora è grintosa, se n'è fatta una ragione e non vede l'ora, come le altre, di riportala a casa, a suo tempo. Non ha fretta, intanto si prepara ad accoglierla rimettendosi in forze. Gliene servirà ancora tanta di energia. È la prima figlia, non sa bene cosa l'aspetti.
Son quattro mesi che è dentro. Sono preoccupato. Mia moglie teme che quando sarà il momento di riportare a casa la nostra bambina non avrà più latte per allattarla pur avendone un grande desiderio , si rammarica un papà un po' stanco di andare avanti e indietro dall'ospedale.
Ci spiega, come già sappiamo, che lo sfinimento e lo stress fanno andare via il latte quando lo togli con il tiralatte. Penso che la gioia di portarla a casa, quando sarà ora, supera anche la tristezza di non darle il latte suo, devo farlo capire anche a lei. Crescerà forte anche con quello in polvere . Certamente, lo rassicuriamo.
La bambina mangia solo con la mamma e con poche altre infermiere, quelle giuste che sanno come fare con lei , ci racconta un altro papà un po' indispettito che sua figlia non voglia prendere il biberon da lui. Vorrebbe aiutare sua moglie, dandole il cambio.
Alloggiano nella family room , una stanza tutta per loro che viene assegnata ai genitori quando sta per arrivare il momento della dimissione e bisogna portare l'ovetto da trasporto. La stanno svezzando con il biberon così da toglierle finalmente il sondino nasogastrico. Le poppate sono di 15 minuti , ci informa orgoglioso.
Una mamma ed un papà sono più preoccupati del solito oggi
Il loro bambino ha raggiunto il peso di 4 chili e trecento grammi. Ce lo mandano a casa ma abbiamo paura. Ci sentiamo inadatti . Temono che portarlo via dall'ospedale, da quella stanzetta, da quella incubatrice dove ha vissuto i suoi primi quattro mesi di vita sia come sradicarlo dal suo ambiente, facendogli del male.
Come se il reparto fosse la sua casa e le infermiere fossero la sua famiglia. Non si sentono bravi come quelle giovani donne che hanno fatto così bene le loro veci genitoriali, accudendoli e salvandoli facendoli crescere.
A 120 giorni è diventato richiestivo. Vuole sempre qualcuno lì con lui , racconta un papà stanco. Bene, è diventato un bambino, provo a rincuorarlo. Ho l'impressione che non sia dello stesso buon avviso.
Ha imparato a conoscere il personale e vuole solo loro, come se si sentisse più sicuro tra le loro mani piuttosto che nelle nostre . Lorella prova a fargli capire che è normale che il bambino fragile si comporti così, come se dicesse: Maneggiami con cura e in sicurezza .
Noi ci sentiamo ancora insicuri e non sappiamo come reagirà a casa cambiando le dinamiche relazionali che aveva con le infermiere . Suggeriamo di parlare con le colleghe di sopra che certamente sapranno aiutarli a gestire il passaggio di mani.
Poi arriva una mamma africana. È sola, senza un papà. Ha partorito da poco, forse da qualche settimana. Non parla la nostra lingua. Ci lascia un foglietto piegato in quattro che, aprendosi, svela una preghiera in inglese scritta con una calligrafia incerta. Ci chiede di recitarla per sua figlia.
È una makumba, un rito per liberarla dallo spirito maligno che l'ha fatta nascere così piccola e non ancora perfettamente sviluppata. Scopriamo allora che, in una terra lontana, una cultura arcaica cerca di proteggere i suoi bambini anche così.
All'orario di chiusura arriva trafelata la mamma che è qui in ospedale da più tempo di tutte. I 120 giorni sono passati. Sua figlia è stata operata un'altra volta. Lorella l'avvolge in un abbraccio. Da mamma a mamma.
Briana Fahey
2 commenti
dỷkuy
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