È una giornata soleggiata, io e Martina ci troviamo in un bar del centro di Torino e decidiamo di scambiare due chiacchiere sulla sua esperienza con Medici Senza Frontiere (MSF) davanti ad una tazzina di caffè. Martina ha 26 anni, è un’infermiera, si è laureata nel 2013 ed ha le idee chiare sul suo futuro. Poco dopo la laurea è partita come volontaria per due mesi in Kenya dove ha lavorato in un piccolo ospedale per una missione cattolica. È lì che ha capito di essere veramente pronta ad affrontare questo nuovo ed intenso capitolo della sua vita.
Martina e la sua scelta di lavorare come infermiera per MSF
Per maturare esperienza Martina ha lavorato per due anni e mezzo in due strutture per anziani e pazienti psichiatrici e nel frattempo ha conseguito il master in cure palliative che ha arricchito il suo bagaglio professionale, soprattutto sviluppando e potenziando le sue competenze relazionali.
Martina vive successivamente altre due esperienze di volontariato come infermiera in un campo rifugiati in Grecia e in un centro di accoglienza migranti in Sicilia.
Perseverando nel suo obiettivo di partire con Medici Senza Frontiere (MSF) ha frequentato il Corso di Medicina Tropicale, riconosciuto dal circuito Troped, della durata di 4 mesi e per il quale ha richiesto un’aspettativa non retribuita al lavoro. Al termine di questo corso ha ricevuto la tanto attesa telefonata da MSF che le comunicava un imminente colloquio con i reclutatori a Roma.
Raccontami della tua prima missione, Martina
Trovare la prima missione è sempre un po' difficile, poiché l’équipe di MSF cerca una missione che calzi a pennello con le tue capacità, affinché tu la possa affrontare serenamente. Ho atteso 7 mesi e nel frattempo ho deciso di ripartire nuovamente due mesi per il Kenya con un’altra associazione di volontariato per arricchire ancora di più il mio bagaglio.
Lavoravo al mattino in un ospedale missionario e al pomeriggio in un carcere ad alta sicurezza dove venivano eseguite delle visite ambulatoriali.
E dopo il Kenya?
Sono partita con MSF il 14 febbraio del 2017 per una missione in Repubblica Democratica del Congo che riguardava una campagna di vaccinazione preventiva.
Sapevi già quanto saresti stata via?
Sono stata un mese nella zona del Nord Kiwu, poi mi hanno comunicato che vi era un’occasione presso il Pool d’Urgence Congo. Io non lo conoscevo, ma tutti quelli che lavoravano con me erano entusiasti della proposta che mi era stata fatta.
Che cos’è il Pool d’Urgence Congo?
È un’équipe d’urgenza, costituita da un gruppo di persone che lavorano a stretto contatto e che si occupano di dare una risposta rapida a dei problemi sanitari importanti, in questo caso parliamo di epidemie come morbillo o colera, per esempio, che quando si manifestano prevedono un intervento tempestivo. Io nello specifico ho partecipato a 3 campagne di vaccinazione di massa per il morbillo.
Quali altre figure ti accompagnavano?
È sempre prevista la presenza di un team multidisciplinare, che comprende medici, infermieri, logisti, figure dedite all’amministrazione a alla gestione delle risorse umane, quindi non solo personale sanitario, cosa che a volte si tende erroneamente a pensare.
Inoltre si cerca di lavorare a più livelli, quindi non solo in ospedale, ma anche nei vari Centri di Salute locali che offrono cure a livello ambulatoriale, o attraverso cliniche mobili.
Di cosa ti occupavi?
In generale, nella mia prima missione con MSF, supervisionavo un team di infermieri dello staff locale.
Quindi svolgevi un ruolo più di tipo educativo-formativo che assistenziale?
Sì, ero stata inquadrata come nursing team supervisor, ovvero dovevo supervisionare una piccola equipe di infermieri locali per aiutarli a crescere, formarli e potenziarli.
Come si procede durante una campagna di vaccinazione?
All’inizio si dialoga molto con le autorità locali; è necessario presentarsi e spiegare chi siamo e cosa siamo venuti a fare. La fiducia è fondamentale per queste azioni, altrimenti l’intervento non può realizzarsi.
Successivamente si sceglie il luogo per l’allestimento della base in cui vivere e posizionare gli uffici, si valuta l’ospedale più vicino a cui appoggiarsi in caso di necessità e le sue risorse disponibili.
In seguito vengono allestiti i siti di vaccinazione e lanciate le attività nelle cliniche mobili: essere il più vicino possibile alla popolazione durante un’epidemia è fondamentale.
Quindi quando realizzate i vostri interventi vi appoggiate a delle strutture già esistenti?
Abbiamo delle nostre strutture, ma a seconda del contesto specifico possiamo appoggiarci a quelle che già esistono e sono funzionanti.
In questo caso, il primo passo è quello di conoscere il personale che lavora nelle strutture preesistenti, cercare di capire quale formazione possiedono e quali possono essere le figure influenti nel villaggio e sulle quali contare, ovvero coloro che possono attirare il maggior numero possibile di persone, come ad esempio il capo villaggio, gli insegnanti, gli uomini di chiesa.
Dopo una fase iniziale di perlustrazione dei luoghi di interesse come chiese e scuole ha inizio il reclutamento del personale, che viene effettuato in collaborazione con il Ministero della Salute; vengono arruolate persone che possono essere d’aiuto a portare avanti la campagna.
Tutti gli interventi vengono realizzati in collaborazione con le persone del luogo e si organizza una formazione per tutti coloro che partecipano alla campagna vaccinale. Una volta che ognuno ha chiaro il ruolo assegnato può iniziare la campagna, che solitamente è della durata di una decina di giorni.
Com’era vivere lì?
Essendo una missione d’urgenza non disponevamo di molti comfort, dormivo in una tenda, in una stanza con altre persone. Per quanto riguarda il mangiare il nostro pasto-tipo era composto da riso bollito, foglie di manioca e un pezzo di carne di capra, il tutto preparato da alcune donne del villaggio che lavoravano con noi.
Cosa c’era nelle vicinanze?
Le case del villaggio ed un mercato locale.
(Martina mi mostra un video di un contesto africano rurale e secco dove a regnare sono le palme, le case dei villaggi e la terra rossa).
Professionalmente cosa ti ha insegnato questa esperienza?
Qui in Italia ho sempre lavorato come infermiera, con MSF sono stata supervisore di altri colleghi. Formare e lasciare qualcosa di tuo agli altri è molto gratificante, perché sai che un giorno andrai via ma avrai trasmesso qualcosa di utile.
Questo aspetto l’ho vissuto soprattutto nella seconda missione, nuovamente in Congo, dove coordinavo 6 infermieri dello staff nazionale di MSF che a loro volta supervisionavano una cinquantina di infermieri del Ministero della Salute.
Che affluenze avevate?
Il nostro era un progetto di salute primaria, gratuito per i bambini da 0 ai 5 anni con un focus sulla malaria, il principale killer, le altre principali patologie erano le infezioni respiratorie e la diarrea.
L’affluenza negli ambulatori supportati da MSF era circa di 1500-1600 bambini a settimana. Alcuni bambini arrivano anche da villaggi distanti molti chilometri, persino dalla Repubblica Centrafricana, visto che solo una lingua d’acqua separa i due stati. Era un progetto comunitario molto importante che cercava di raggiungere anche i villaggi più disagiati ed aveva alla base una collaborazione strettissima con il Ministero della Salute locale.
Com’è rapportarsi con le persone del posto? Accettano il tuo supporto?
Dipende tutto dal modo in cui ti relazioni con loro, all’inizio non sanno chi è MSF, devono capire cosa sei venuto a fare lì, nella loro terra.
Inizialmente c’è sempre un po' di diffidenza da superare, ma sono molto umili e disponibili alla collaborazione.
Il grande scoglio in queste zone rurali spesso è ancora la sfiducia nella medicina moderna, vista anche la presenza dei guaritori locali che sono molto influenti sulla popolazione locale.
Come vi interfacciavate con i guaritori locali?
Coloro che fanno il lavoro più importante di interazione con la popolazione sono i promotori di salute, il loro compito è quello di informare la popolazione, si recano nei villaggi a spiegare l’importanza di quello che MSF è venuto a fare e si interfacciano con i guaritori, cercano di includerli nella campagna.
Cosa ti ha insegnato questa esperienza dal punto di vista umano?
Vivere in questi contesti ti fa capire il valore delle cose, ti lascia molto tempo con te stesso, ti porta a lavorare sempre ai cento all’ora per migliorare anche solo di un millesimo la vita delle persone che incontri.
Come infermiere si perde un po' lo stretto contatto con il paziente, ma trovi la gioia nell’aiutare i colleghi a crescere come professionisti, lasciando loro degli strumenti e delle conoscenze che speri perdureranno nel tempo.
A proposito di arricchimento del proprio bagaglio umano, MSF ha appena lanciato #UMANI, una bellissima campagna sul valore dell’aiuto umanitario partendo dalle emozioni che accomunano tutti noi umani (dolore, gioia, rabbia, paura e speranza): le riconosci nelle tue missioni?
Ho conosciuto una bambina, aveva meno di 5 anni ed era arrivata nel nostro ambulatorio fortemente malnutrita con edemi alle braccia, alle gambe, al volto, le sue condizioni erano gravi. Non puoi che provare rabbia e dolore in quelle situazioni.
Con la mia équipe le abbiamo fornito le prime cure e l’abbiamo immediatamente indirizzata in ospedale. Successivamente sono andata a trovarla nel reparto malnutriti, sostenuto da MSF, e con il passare dei giorni ho visto una ripresa che l’ha portata alla dimissione, e lì ritrovi la gioia e la speranza che queste persone e il tuo lavoro ti regala.
In seguito un collega mi ha riferito di aver sentito da qualcuno del villaggio che la bimba era morta. Ho provato un forte sgomento, dolore ed ho cominciato a domandarmi cosa stessi realmente facendo lì, se il nostro intervento non era servito a salvare quella vita.
Cosa siamo venuti a fare qui? Qual è l’utilità di quello che facciamo? Il giorno seguente parlando con un’altra infermiera ho scoperto che la bambina stava benissimo, in preda alla sorpresa e all’incredulità sono andata a cercarla nel suo villaggio e quando l’ho trovata mi è venuta incontro correndo e sorridendo.
Era guarita, l’ho abbracciata, era molto timida, mi accarezzava la mano, era imbarazzata, le ho sussurrato qualche parola nella sua lingua e lì è stato come ritrovare la speranza.
Molte volte noi siamo lì sul campo e con quella maglietta ci sentiamo dei supereroi ma non è così, bisogna sempre svegliarsi umili tutte le mattine. Dobbiamo ricordarci chi siamo davvero, che non siamo Dio e a lui non possiamo sostituirci, che le cose possono succedere e la morte può arrivare e tu puoi non essere pronto ad accettarlo.
Essere umani vuol dire anche questo: non puoi salvare il mondo da solo anche se fai del tuo meglio. La speranza è un forte motore e fortunatamente ci sono anche delle belle notizie che ti portano ad andare avanti per quella strada e a trovare la motivazione in quello che stai facendo.
Credo che queste siano emozioni trasversali a ogni contesto di cura, sicuramente più vivide ed intense nei contesti di emergenza dove opera MSF, ma che possiamo traslare anche nei nostri reparti ospedalieri
Certo, però nei contesti di emergenza dove opera MSF credo sia più forte, perché ti interfacci ed affronti delle situazioni spesso disperate e ti sembra che la morte sia dietro l’angolo che ti aspetta, soprattutto vedi arrivare tanti bambini quando oramai è troppo tardi e tu non puoi più agire in alcun modo. La cosa più importante è, infatti, sensibilizzare le famiglie affinché capiscano quando rivolgersi al personale per non perdere del tempo prezioso.
La campagna è inoltre rivolta a tutti e serve a evidenziare come una Ong sia fatta in primis da persone: tutti siamo umani e abbiamo le stesse emozioni, non potremo mai raggiungere la perfezione, siamo persone con pregi e difetti, tutti uguali e diversi allo stesso tempo, ma accomunati dalle medesime emozioni. Questa campagna vuole sottolineare proprio questo aspetto, un operatore di MSF non è un supereroe, è una persona esattamente come te, come me, che ha scelto di fare questo lavoro.
Qual è la tua motivazione?
Ognuno sceglie di partire per motivi diversi. Per me era un sogno, la mia vita come infermiera me la immaginavo così, volevo fare qualcosa di utile dove c’era più bisogno. L’Africa mi è rimasta dentro, soprattutto il modo caloroso di accoglierti delle persone. So che ci tornerò.
MSF è sempre alla ricerca di infermieri competenti e specializzati in malattie infettive, area critica, strumentisti e pediatrici, consiglieresti ai nostri colleghi questa esperienza?
Consiglio ai miei colleghi infermieri di buttarsi, inviare il loro curriculum vitae e di non scoraggiarsi se al primo tentativo non vengono reclutati. MSF è molto selettiva, questo per proteggere noi infermieri e i nostri beneficiari e colleghi.
È un’esperienza che ti fa crescere come professionista e come persona, quello che vivi lì è un bagaglio che ti porterai per sempre nella tua vita e quindi se sei una persona che sa adattarsi, che non ha paura di mettersi in gioco, di vedere contesti e parlare lingue diverse, di conoscere altre persone e sai adattarti un po’ a tutto, dal cibo al contesto di vita, allora puoi lanciarti in questa avventura.
È un cambiamento di vita e devi sapere che per molti mesi sarai lontano dalla tua casa e dai tuoi affetti, ma sicuramente ad ogni ritorno il tempo passato con le persone che ami sarà molto più di qualità.
E tu adesso vuoi continuare?
Sì, sono quasi in partenza per il Bangladesh. Una nuova grande sfida.
Commento (0)
Devi fare il login per lasciare un commento. Non sei iscritto ?