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Lei è Beatrice, non una stenosi carotidea

di Redazione

Una mattinata di pre-ricovero che aveva decisamente tutta l’aria di non voler mai finire. Ecco la signora Beatrice, come tante altre migliaia di persone, dinanzi al destabilizzante trauma dell’ospedalizzazione. Un quotidiano vivere che bruscamente s’interrompe, senza dare il tempo di comprendere come e perché.

Quando ho accompagnato Beatrice in sala operatoria

Dopo una breve anamnesi per la compilazione della cartella clinica, il medico espone con fare un tantino frettoloso il problema di salute della paziente. C’era da intervenire subito chirurgicamente, per poi pianificare gli interventi terapeutico-assistenziali della fase post-operatoria.

Come da routine, viene chiesto alla signora Beatrice di eseguire delle analisi ed una serie d’indagini cliniche che permettessero di accertare la fattibilità dell’intervento.

Nello stesso giorno viene effettuata anche la visita con l’anestesista. Una fortuna, così non si sono protratti i tempi d’attesa, già snervanti. Un cenno di saluto ed il dottore passa al paziente successivo.

Anch’io avrei dovuto proseguire con il mio giro, ma in quel momento della signora, più che mai disorientata, lessi chiaramente lo stato d’animo, la sua totale confusione verso dei paroloni di cui aveva capito ben poco.

La sua esitazione nel chiedere, temendo una brutta figura. Lo smarrimento. La paura di non uscire sveglia da quella sala operatoria.

Così, rimasta nella stanza un po’ più di quanto avessi previsto, provo ad offrirle tutto il mio sostegno e a darle qualche chiarimento, con uno sguardo più “amico”, meno freddo e distaccato.

Una vicinanza non solo fisica, ma emotiva. Ancora qualche minuto di conforto, una stretta di mano su di un pallido e freddo pugno chiuso sulla scrivania, e un “forza Beatrice!” che le distende il volto: Beatrice, sentendosi chiamare per nome, in quel frangente si è sentita una paziente un po' meno recluta.

L’infermieristica non è solo un’arte, ha un cuore. L’infermieristica non è solo una scienza, ha una coscienza (Anonimo)

Arriva il giorno del ricovero e tutto era pronto. Prossima oramai all’intervento, non restava che accompagnare la paziente in barella in sala operatoria, su al quarto piano. Continuo a farle sentire con costanza la mia voce, lungo tutto il tragitto che la separava dal blocco operatorio: nei corridoi, in ascensore, nella presala.

La vista di quell’ambiente austero per nulla familiare, di tutte quelle cuffiette e mascherine verdi che, in fase di preparazione, si passavano ferri e teli sterili con fare quasi meccanicistico, la fa ripiombare in uno stato d’ansia e agitazione.

Non si sente più “Beatrice”, ma freddamente una “stenosi carotidea da operare”. Probabilmente il È arrivata la stenosi? quasi gridato dal chirurgo alla sua équipe ha giocato un ruolo pesante.

Non le ho mollato la mano e sono rimasta al suo fianco, tentando di distrarla. Ho messo da parte la fretta e gli atteggiamenti sbrigativi e le ho chiesto della sua famiglia, del lavoro e di tutto ciò che ama fare nel tempo libero.

Sente il mio interesse verso la sua persona, si vede. E inizia quasi a proiettare la pellicola del film della sua vita: in pochi minuti, tanti piccoli flashback ad occhi lucidi.

È arrivato il momento dell’anestesia e Beatrice, che non ha certo dimenticato la natura dell’intervento, mi ringrazia per averle suscitato tutti quei meravigliosi ricordi e perché da lì a poco si sarebbe così addormentata con il sorriso nel cuore.

Avevo contribuito a renderle quella situazione più “affrontabile”, semplicemente accantonando la fretta e riconoscendo che avevo dinanzi una persona. In fondo è bastato poco. Quel poco che però è essenziale e, quando non c’è, manca in maniera terribile.

Beatrice ha superato l’intervento e si è ripresa con tenacia. Io, invece, ho avuto un altro esempio di come, nonostante le carenze organizzative, noi infermieri sappiamo “essere infermieri”, non limitandoci solamente a farlo.

Siamo sempre in fibrillazione, con o senza emergenze in corso, perché le nostre “braccia-lavoro” numericamente non sono in grado di rispondere a tante richieste assistenziali simultaneamente. Eppure in qualche modo si fa, troviamo la forza. Oppure è la forza che trova noi.

Maria Pirozzi, Infermiera

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