Sara è un’infermiera di Area Critica e rianimazione presso si è sempre fatto così
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Il nostro lavoro è relazione
Sara si è laureata all’università di Siena e fin dagli studi si è appassionata alla rianimazione a area critica, ambito che ha approfondito frequentando prima un master e poi concludendo il suo percorso di studi conseguendo anche la laurea magistrale. Si dice fortunata perché già dal suo primo incarico ha potuto lavorare lavorare in area critica, un reparto in cui ci sono più infermieri che medici in corsia
. Poi Non volevo andare in pediatria, all’inizio avevo molte resistenze ma è bastato poco per innamorarmi di questo reparto. Il bambino è sfidante perché non sempre è in grado di dirti quello che ha e in quel caso ogni segnale è fondamentale e ogni bambino è diverso
A volte mi capita di fermarmi e pensare a quanto sono fortunata a fare questo lavoro
La percezione della professione infermieristica fuori dalle corsie
Troppo spesso si sente associare l’infermieristica alla missione o, come molti dicono, si tratta di una vocazione. Sara non la pensa così, al contrario, ma chiarisce Non siamo missionari, abbiamo competenze e responsabilità ma bisogna essere empatici e ti deve interessare essere sfidato di continuo, senza questo non c’è stipendio che tenga.
Il romanzo sanitario in questi due anni di pandemia con gli angeli del covid
sempre in prima linea, non ha contribuito ad una maturazione nella percezione comune della figura dell’infermiere: C’è un problema di educazione della cittadinanza, non solo, ancora la gente si stupisce che ho una laurea ma dalla pandemia tutti sono pronti a mostrarmi il loro pathos, ancora viene mantenuta la narrazione degli eroi e non è detto che sia un bene
. Soprattutto al Pronto soccorso questo difetto di percezione
è ancora più evidente ci spiega Sara Le persone usano spesso il Pronto soccorso come un luogo dove è possibile fare esami più velocemente, hanno la pretesa di avere tutto e subito mentre io sono o quella che fa le punture o il braccio destro del medico. Ma parte della colpa è nostra, perché siamo troppo frustrati e non viene mai fuori il vero fulcro della professione
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Eppure proprio la pandemia, tra terapie intensive piene, la carenza di personale che si è fatta stringente, pazienti isolati da tutti tranne i professionisti in corsia, ha aiutato Sara a ricordare perché ha scelto di essere un’infermiera: A volte dimentichiamo cosa c’è dietro la persona ma con il Covid lo abbiamo visto, quando abbiamo chiuso le porte e le famiglie dei pazienti erano lasciate fuori. In quel periodo ho ricordato che il fulcro del nostro lavoro è la relazione, il rapporto. Non solo con i pazienti ma anche con i colleghi e tutti i sanitari in reparto, dal medico all’oss. Ripensandoci i rapporti veri che ho costruito sono l’unico motivo valido per continuare a fare questo lavoro. Avere un buon team e una buona equipe è la carta vincente in questa professione. Una buona equipe non è un’equipe perfetta, ma un gruppo con il quale si condivide un ideale grande e che ti fa sentire di avere sempre le spalle coperte
Il lavoro di Sara non si esaurisce in corsia, da studente appassionata e da professionista certa della propria scelta ha deciso di provare a rilanciare la professione infermieristica tra i più giovani, insegnando ad altri la sua passione, l’area critica, all’Università di Bologna e di quell’esperienza racconta che gli studenti apprezzano che gli si mostri la realtà, ci sono non solo pochi docenti infermieri ma anche tra gli infermieri che insegnano in Università, pochissimi lavorano in corsia. A me piace insegnare mentre lavoro, è come fare ricerca costante e
si è sempre fatto così
come si fa a dire una cosa del genere a uno studente e pretendere che si instauri un rapporto di fiducia?
C’è ancora molta strada da fare perché agli infermieri siano riconosciute competenze, rispetto sociale e professionale ma è una strada da percorrere come gruppo - conclude Sara - manca ancora uno scatto decisivo perché si giunga a una vera indipendenza infermieristica.
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