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La mia infermiera: Medici, non chiamatemi più così

di Redazione

Quante volte vi siete sentiti chiamare “il mio infermiere” da un medico? Pensate che la cosa accada per un uso semplicistico della lingua italiana, oppure si tratta del sintomo di un retaggio culturale difficile da scrostare dalle corsie degli ospedali? Maria Grazia, infermiera, con la sua testimonianza ci fa riflettere sulla questione.

La mia infermiera: Medici togliete quel possessivo, io non sono di nessuno

Maria Grazia: "Essere infermieri è una professione e l'infermiere non è proprietà di nessuno"

Da un po’ di tempo a questa parte seguo il blog di una dottoressa anestesista-rianimatore, popolare e con un discreto seguito su Facebook.

Qualche giorno fa mi ha infastidita un’espressione da lei usata: scriveva della coordinatrice infermieristica dell’UO in cui lavora come de “la mia caposala”.

Al di là del racconto sempre coinvolgente, emozionante ed empatico per tutti noi sanitari, mi sono tornate in mente tutte le volte che, anche nel mio ambito lavorativo, ho sentito medici rivolgersi a me o ad altri colleghi con questa inappropriata espressione.

Sarà per l’istinto fortemente indipendente che mi contraddistingue dalla nascita, ma ritengo che nessuno possa utilizzare aggettivi possessivi per la mia persona, genitori esclusi.

Non so voi, ma questa espressione, ancora e troppo spesso utilizzata da alcuni medici, mi irrita fortemente.

Trovo che l’utilizzo dell’aggettivo possessivo davanti alla parola “infermiera” sottintenda una sorta di “proprietà” e di subordinazione da cui sarebbe meglio che i signori medici si sdoganassero una volta per tutte

Essere infermieri è una professione, una disciplina accademica ormai ampiamente riconosciuta, alla stregua delle scienze mediche, che ha propri ed esclusivi ambiti e competenze.

La figura obsoleta dell’infermiere come mero esecutore di azioni e tecniche su ordine del medico è ormai preistoria e sarebbe ora che alcuni medici si aggiornassero in merito.

Esistono leggi precise che sanciscono l’identità dell’infermiere come figura a sé stante, non subordinata alla figura del medico, bensì complementare e facente parte di un gruppo di figure professionali sanitarie che entrano in gioco nel processo di cura, mantenimento della salute, prevenzione delle malattie e accompagnamento alla morte del paziente.

Appare anacronistico e fortemente sminuente l’identità professionale che un medico possa oggi rivolgersi ad ognuno di noi con tale espressione. Ancor più svilente ed anacronistico appare l’infermiere che acconsente, spesso abbozzando, all’utilizzo di tale espressione verbale da parte dei medici.

Come sempre è rilevante la responsabilità che abbiamo nel far riconoscere la nostra identità ed autonomia professionale anche e soprattutto quando non interveniamo nel farci rispettare come professionisti e nel sottolineare come siamo figure professionali complementari a quella medica e come tali: non subordinate, non al servizio di… e neppure “esecutori”.

Elevare il riconoscimento sociale della professione dipende anche da questo: dare il giusto significato anche alle parole che spesso si accompagnano alla parola “infermiere” e far sì o impedire che chiunque possa utilizzare parole che possano distinguerci come professionisti o riportarci indietro professionalmente di anni.

Maria Grazia Peddes Etzi, Infermiera

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