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Io, infermiera davanti al rischio di morte imminente di un uomo

di Monica Vaccaretti

Avevi più o meno novant'anni. Ho premuto la parte inferiore dei miei palmi nel profondo del tuo petto. Ancora, ancora, ancora. Una confusione di persone che circondano tutto qui per te. Ancora, ancora, ancora. Ho sentito delle dita sottili afferrarmi il polso. Il tuo. È sveglia. Senti il suo polso! Per un momento, eri. Ho guardato sul monitor. Il ritmo si placa ancora una volta. Ancora, ancora, ancora. Non ti sei più svegliata.

"Ancora", quando la poesia incontra l'infermieristica

rianimazione

Quando mi ritrovo ad assistere al rischio di morte imminente di un essere umano, mi accorgo di aver perso la fortezza d'un tempo.

È in questo momento, contenuto in versi di poesia, che sento più forte l'inevitabile finalità della vita e la mia fragilità.

Tutte le volte che mi è capitato di trovarmi accanto a qualcuno che è al confine tra la vita e la morte, fuori e dentro l'ospedale, ho sempre reagito prontamente sorprendendomi della lucidità con cui rispondevo all'imperativo di agire, cercando di salvare.

Sono momenti improvvisi, immersi nella routine quotidiana o assistenziale, che non ti aspetti anche se inconsciamente si è sempre un po' in allerta quando si è al lavoro. Basta un rumore sospetto, un trambusto nella sala d'attesa, una concitazione fuori luogo nel corridoio, un grido, un passo troppo frettoloso di un'infermiera tra la gente.

E già si abbandonano gesti più abitudinari e lenti e ci si ritrova improvvisamente ad un letto, ad una poltrona, su un pavimento. Inginocchiati su un arresto cardiaco ad iniziare la rianimazione cardiopolmonare.

È sconvolgente la prontezza con cui si passa in pochi minuti da un ritmo di vita e di cura ad un altro, come fosse normale chiamare subito il 118, analizzare il ritmo cardiaco e, a seconda del caso, eseguire compressioni toraciche o erogare shock con un defibrillatore.

In attesa che arrivi il soccorso d'emergenza non resta che andare su e giù. Contare e perdere il conto. Quando tutto finisce, qualunque sia la conclusione, ci si sente svuotati di energia, fisica ed emotiva. Ma si deve tornare, come niente fosse, al posto di prima da cui ci si era allontanati di corsa.

E si ricomincia, riprendendo ciò che si era lasciato in sospeso cercando al contempo di riprendersi intimamente, senza darlo troppo a vedere agli altri pazienti. A volte non c'è neanche il tempo di fumare una sigaretta, prendersi un caffè, respirare un po' d'aria. Tutto questo non è tanto normale.

Oggi mi sento più fragile di fronte all'ultima ed intima fragilità di una persona, soprattutto se l'evento capita d'improvviso e il decorso è rapido.

Quando mi ritrovo ad assistere al rischio di morte imminente di un essere umano, mi accorgo di aver perso la fortezza d'un tempo. Come se il training non mi bastasse più a superare lo stress che sento scatenarsi dentro, prima durante e dopo. Forse è l'età.

È allora che trovo conforto, davanti alla prossimità della morte, in una poesia come “Ancora”, scritta dalla dottoressa Kathleen Brodowsky. Quei suoi “Ancora, ancora, ancora” li abbiamo provati tutti almeno una volta nella carriera.

Adesso mi riscopro a cercare come un toccasana un senso, poetico. Un chi. Un cosa, un dove, un quando, un perché. Cinque interrogativi che spesso non hanno risposta.

Vorrei conoscere la storia della persona la cui vita ho tra le mani che mi sembrano così maldestre o incerte anche se fanno tutto bene, meccanicamente. Vorrei conoscere la sua umanità piuttosto che assistere alla tragicità di quel che le sta capitando.

Penso che sapere i dettagli mi potrebbe aiutare dopo a superare il trauma, quando tutto, bene o male, sarà finito. Ma in fondo non è importante sapere la sua identità, essa deve restare inviolata e protetta. Conoscerla, aumenterebbe forse il rischio che mi rimanga dentro.

Posso solo vivere, anche se ne farei a meno, la cronaca di un momento, di durata variabile, in cui tutto si consuma e viene portato a compimento. E poi dimenticare. Quando l'adrenalina passa, sento solo stanchezza sulle braccia. I muscoli mi tremano dallo sforzo.

Vorrei che non mi capitasse più. O che ci fosse qualcun altro che lo facesse al posto mio, che mi guidasse, che fosse un leader. Mi sento meno meccanica, meno fredda. Forse è l'età, mi ripeto ancora.

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