Quando un infermiere è dall’altra parte: ovvero cadere, fratturarsi l’omero e vivere il mondo della sanità dall’altra parte del bancone. Cambiare prospettiva per modificare, ove serve, alcuni nostri comportamenti, a volte poco lusinghieri per la professione e poco accoglienti per l’assistito.
Infermiere diventa paziente: Il mondo sanità visto da un'altra prospettiva
Sabato pomeriggio, Genova, giornata splendida di sole … che fare? Deciso: un bel giro del centro storico genovese. Visito alcune delle chiese cittadine più piccole, ma di valore storico e artistico culturale di notevole importanza. Decido di chiudere il mio mini tour con una visita alla Cattedrale di San Lorenzo. Quella in cui tutti i Papi che visitano Genova, recitano la S. Messa.
All’uscita, scendendo gli scalini, scivolo sul marmo levigato da centinaia di anni di culto. Comprendo subito, dall’entità del dolore, che si potrebbe trattare di frattura! Mi reco, quindi, al Pronto soccorso di un ospedale genovese, dove, per fortuna, non vi è un grande assembramento di persone.
Il dolore si è fatto via via sempre più intenso, al limite della sopportazione. Lì, in Ps, trovo professionisti di ogni genere e grado veramente preparati e gentili. Comprendono il mio dolore, ma pure il mio stato emotivo. Mi aiutano a liberarmi dagli indumenti, mi posizionano un tutore e mi somministrano una fiala di oppiaceo in flebo. Dopo di che mi accompagnano a fare una radiografia e in seguito una TC alla spalla e al braccio. Risultato: frattura scomposta.
Purtroppo l’Ente ospedaliero non risulta nelle condizioni di potermi operare, in quanto non vi è disponibilità delle sale prima di giovedì o venerdì. Per la cronaca: filo di K. o placca e vite?
Decido a questo punto di rivolgermi ad un altro grande ospedale cittadino. Qui mi dicono subito che nel weekend sono entrate 18 fratture, ma che comunque proveranno a operarmi martedì. Lunedì sono, quindi, andato a fare gli esami ematici preoperatori, gli RX e l’Ecg.
L’impatto con la parte ambulatoriale è decisamente positiva. Vengo accolto dal personale di supporto in maniera molto educata e precisa. Mi viene eseguito il prelievo e mi viene indicato il percorso che dovrò seguire nel corso della mattinata. L’infermiera non sa assolutamente che siamo colleghi.
Successivamente mi reco in radiologia per effettuare la lastra a confermare la frattura. Anche qui personale molto cordiale. Unica nota che mi ha colpito è che il Tecnico di radiologia non vuole, o non può, avere il minimo contatto con il paziente, in questo caso il sottoscritto. Si sposti 3 cm più a destra, adesso 2 a sinistra
, ma nessun contatto fisico.
In accettazione personale molto cordiale, nonostante la gran massa di persone che vi affluiscono. Diverse sono le patologie che fanno riferimento a questo Servizio (anche qui una piccola nota stonata: perché non distribuire numerazioni correlate al tipo di indagine che deve essere eseguita? A me è risultato difficile comprendere il criterio di chiamata, che sicuramente esiste, ma non è intuibile dal Cittadino. Piccole cose, fortunatamente).
Arriva il mio turno e mi reco nell’ambulatorio dedicato. E qui si esplica la situazione che più mi lascia perplesso. La collega dedicata all’effettuazione dell’esame mi dice che non sa se sarà in grado di eseguire la procedura, in quanto io sono portatore di un tutore al braccio sn. Dopo un tira e molla verbale, molto tranquillo ed educato, riesco a convincere la professionista a compiere la sua “impresa”.
Eseguito l’esame, con successo e meraviglia della stessa, io mi devo ricomporre l’abbigliamento. Ebbene la collega non pare per nulla intenzionata ad aiutarmi, d’altra parte lei deve “solo” fare Ecg (spero si intenda dell’ironia in queste mie parole). Provo a farle intendere la mia necessità: un tutore al braccio sinistro fratturato alla base omerale in attesa di intervento chirurgico. Motivo per cui sono lì da lei a sottopormi all’esame diagnostico. Ma nulla.
Le chiedo allora di far entrare mio figlio in ambulatorio in modo che possa aiutarmi ad infilare, parzialmente, solo sul lato destro, i miei indumenti. Naturalmente ella acconsente.
Finita la vestizione usciamo dall’ambulatorio perplessi. Domanda: Se invece di essere noi - cioè una persona non ancora anziana accompagnata da una decisamente giovane - fossimo stati due anziani? Il suo comportamento sarebbe risultato il medesimo?
Comprendo benissimo che quanto accaduto è una goccia nell’oceano, ma spesso la nostra categoria professionale viene giudicata in base al primo impatto che l’utente ha con l’operatore di front-line.
Probabilmente la collega neanche si è posta il problema. Non ha percepito la mia esigenza, seppur banale, come sua. Eppure è proprio in questi particolari che si mostra il professionista, anche se sta solo eseguendo un “banale” elettrocardiogramma.
Si chiude così il mio – breve - percorso ambulatoriale, in attesa di essere sottoposto a intervento chirurgico. Alcune considerazioni personali, vista la mia duplice veste di infermiere e di paziente, mi pare corretto espletarle.
La più importante riguarda il fatto che una persona con una frattura trattabile solo chirurgicamente debba aspettare 5 giorni prima di poter essere operato. Naturalmente non mi permetto di “dare” responsabilità a nessuno. E ci mancherebbe, smentirei il mio “credere” la sanità un sistema complesso, non spiegabile attraverso un semplice algoritmo.
Resta il fatto che il tempo di attesa è abbastanza importante, anche perché il dolore è notevole. Credo che questa “condizione” sia riferibile a un problema, veramente sistemico, per cui andrebbe fatto, o aggiornato, dai gestori della sanità pubblica un ragionamento ampio.
Altra considerazione, sempre personale e che rafforza il mio antico convincimento, è quella concernente la personalizzazione dei rapporti interpersonali tra operatori della salute e Cittadino/utente.
È cosa ormai nota - ma mai abbastanza praticata - che una comunicazione empatica aiuta il paziente ad affrontare meglio il proprio percorso di cure, qualsiasi sia la patologia in atto. Ci sono troppi elementi che sfuggono a noi professionisti della salute: per primo che il paziente, quasi sempre, è in uno stato di “soggezione” psicologica dovuto al proprio stato di ansia, per esempio non sapere la diagnosi, o dovuto al dolore avvertito; il mio caso per esempio.
Oppure avere il pensiero di lasciare a casa soggetti “deboli, o di mettere a repentaglio la propria esistenza lavorativa. Risultare un “mero” esecutore di indagini diagnostiche o pratiche sanitarie in generale è una parcellizzazione delle nostre professionalità, in quanto non soddisfa le esigenze umane del paziente/utente. Probabilmente la professionalità stile “Tempi moderni”, per non dire “Modello Toyota” risulterà utile seguendo l’algoritmo “tempo lavorativo/numero esami eseguito”. Ma non è questo il modello di sanità che prediligo e che mi aspetto.
Prima ho portato l’esempio della collega che non ha avvertito la mia esigenza di ridare dignità al mio abbigliamento, ma vi sono due piccole, altre, vicende successe che vi voglio raccontare.
La prima riguarda due addetti alle informazioni che dietro il vetro dello sportello chiacchieravano tranquillamente delle loro vicende professionali dando le spalle al pubblico. La cosa in sé non sarebbe per nulla grave, forse ai più potrebbe apparire addirittura insignificante.
Io l’ho trovata sufficientemente fastidiosa, non tanto perché stessero chiacchierando - a chi non è mai capitato in servizio - ma quanto piuttosto perché stavano voltando le spalle al motivo della loro esigenza professionale.
La seconda, invece, riguarda probabilmente una giovane Dottoressa, non identificabile in quanto sprovvista di cartellino di riconoscimento.
Alla mia richiesta di un’indicazione logistica mi ha risposto - in maniera corretta, questo va detto - senza voltarsi né guardarmi, continuando il suo tragitto in maniera imperterrita. Sono giunto a destinazione seguendo le sue istruzioni, ma non avendo interagito con un navigatore elettronico, mi sarei aspettato una maggiore cordialità.
Piccole cose, magari ai più insignificanti, ma che mi hanno colpito in maniera importante trovandomi “dalla parte del malato”, tanto da decidere di scrivere questo breve racconto che spero ci aiuti tutti a modificare, ove serve, taluni nostri comportamenti che, a mio avviso, appaiono troppo poco professionalizzanti e negativi per le categorie delle professioni sanitarie. Tutte.
Commento (0)
Devi fare il login per lasciare un commento. Non sei iscritto ?