Ero in servizio venerdì 21 febbraio. Sono un infermiere, lavoro in uno di quei reparti considerati di “prima linea” e la notizia dei primi due casi di coronavirus nella nostra provincia è arrivata come una doccia fredda. All’improvviso non era più una notizia del telegiornale come le altre, non era più una cosa lontana che non ci riguardava e non influiva sulle nostre vite. La popolazione ci ha presi d’assalto. Il mio turno che era già di dodici ore: è diventato di quindici. I colleghi della notte sono arrivati in anticipo e in numero superiore a quello previsto.Ci siamo trovati nel pieno di una battaglia e totalmente disarmati.
Siamo nel bel mezzo di una guerra. Una subdola guerra
Quando andavo a scuola, la storia non era certo una delle mie materie preferite. Date ed eventi da ricordare, che ai miei occhi avevano davvero poco senso. Mi ricordo però che alla mia domanda perché dobbiamo studiarla?
la risposta era che dalla storia possiamo apprendere importanti lezioni che ci permetteranno di far sì che certi sbagli non vengano ripetuti in futuro.
E invece no. Non impariamo mai.
Io ho trentaquattro anni, faccio parte di quella generazione che ha fatto in tempo a sentire i racconti della guerra dei propri nonni. La povertà e la paura, la sofferenza e la morte, mettevano tutti o quasi sullo stesso piano.
Quello che i libri chiamano “sforzo bellico” non riguardava solo i soldati al fronte, ma coinvolgeva tutto il popolo. C’era chi lavorava nelle industrie che fornivano gli armamenti all’esercito, c’era chi continuava a pescare, coltivare, allevare, affinché la gente potesse mangiare e ognuno, nel suo piccolo, contribuiva in qualche modo.
Sì, magari anche all’epoca c’era chi guardava solo ai propri interessi e si arricchiva pure grazie alla guerra. Ma sto facendo un discorso più generale sullo spirito nazionale, sul senso di appartenenza ad una comunità che supera il concetto di singola persona.
Oggi, a metà marzo del 2020, siamo di nuovo in guerra. Una guerra subdola, meno evidente, che non ha il rumore delle esplosioni e le immagini di città distrutte. Eppure, sta facendo centinaia di morti al giorno. Lo ammetto, all’inizio anche io l’ho sottovalutata, nonostante fin dai primi momenti fosse evidente che stava succedendo qualcosa che non avevamo mai visto prima.
Ero in servizio venerdì 21 febbraio. Sono un infermiere, lavoro in uno di quei reparti considerati di “prima linea” e la notizia dei primi due casi nella nostra provincia è arrivata come una doccia fredda. All’improvviso non era più una notizia del telegiornale come le altre, non era più una cosa lontana che non ci riguardava e non influiva sulle nostre vite.
La popolazione ci ha presi d’assalto. Il mio turno che era già di dodici ore: è diventato di quindici. I colleghi della notte sono arrivati in anticipo e in numero superiore a quello previsto.
Ci siamo trovati nel pieno di una battaglia e totalmente disarmati
Le informazioni ci arrivavano di minuto in minuto e calibravamo la nostra risposta all’utenza in tempo reale. Mantenerci tutti allo stesso passo era complicatissimo, perché non avevamo il tempo di parlare tra noi, di condividere le novità che ci investivano. Un flusso incessante di chiamate degli utenti ci ha letteralmente travolti e lasciati senza fiato.
Quella sera sono tornato a casa con la testa nel pallone
Ho fatto fatica ad addormentarmi e nelle poche ore in cui ho chiuso gli occhi ho sognato di essere in quarantena. Nel frattempo, i colleghi dell’ospedale colpito per primo, lo erano davvero. Bloccati nei reparti, senza poter andare a casa, senza ricevere il cambio dai colleghi della notte. E naturalmente con i pazienti da assistere.
L’immagine che alcuni hanno dei sanitari, “statali” con il lavoro sicuro che se la prendono comoda, è molto distante dalla realtà. Quando fai questo lavoro dando del tuo meglio, a fine turno sei esausto. Hai bisogno di uscire, di respirare, di tornare a casa dalla tua famiglia.
Quella notte la mia testa era con quei colleghi bloccati lì
Il giorno dopo sono tornato in servizio con oltre un’ora di anticipo e sono smontato con quattro di ritardo. La prima cosa che ho fatto quella mattina, è stato telefonare ai colleghi in isolamento. Non c’era molto che potessi dire o fare per loro, volevo solo che non si sentissero dimenticati.
Ma era solo l’inizio. Non era ancora immaginabile cosa sarebbe successo di lì a poche ore. I casi hanno iniziato a moltiplicarsi a velocità spaventosa e nel giro di poco è stato chiaro che il problema era molto più generalizzato di quello che si pensava.
Nei giorni a seguire - e tutt’ora continua - ci è arrivata una pioggia di documenti dalla Regione. Decine e decine di pagine ogni mattina. E bisogna leggere tutto, essere sicuri di aver compreso le indicazioni fornite, perché da quello dipende l’efficacia della nostra azione come sistema sanitario.
Non eravamo pronti ad affrontare tutto questo
Non mi riferisco tanto al mio reparto, che pur non avendo mai visto nulla di questa portata, è comunque abituato a lavorare in emergenza. Parlo della sanità più in generale.
Il reparto di malattie infettive è stato travolto, con una richiesta di prestazioni mostruosamente sproporzionata rispetto alle risorse abitualmente disponibili. I Pronto soccorso, i reparti di degenza, le rianimazioni, hanno dovuto riorganizzare tutta l’attività per gestire una nuova tipologia di pazienti che richiedono percorsi dedicati per evitare di trasmettere l’infezione all’interno dell’ospedale.
In un momento in cui le strutture sanitarie diventano essenziali, non ci si può permettere di chiuderle perché ci sono dei contagi tra i pazienti o tra il personale. Già la chiusura degli accessi a quel primo ospedale ha avuto delle ripercussioni. Il resto della macchina andava mantenuto il più in efficienza possibile.
Una guerra. Non c’è altro modo per descrivere la situazione. Un maxi-incidente è complesso da gestire, ma la fase emergenziale dura alcune ore. Un attentato può essere catastrofico, ma anche in quel caso la durata temporale dell’evento è limitata. Qui siamo davanti ad una cosa diversa, che durerà per settimane, forse per mesi.
L’altra grande differenza è che un incidente o una bomba producono effetti subito visibili sulle vittime. Vediamo immediatamente chi è stato colpito e quanto è grave. Possiamo decidere già sul campo qual è l’ospedale più adatto verso cui inviare i feriti. Questa volta no, non è così evidente dove è “caduto” il virus. Non possiamo distinguere ad occhio nudo un’influenza da qualcosa di diverso se i sintomi sono lievi.
E così dobbiamo affidarci ai ricercatori, a tutte quelle persone che dedicano il loro lavoro allo studio delle malattie, agli esperti di statistica, che ci forniscono degli strumenti per discernere chi portare in ospedale e a chi invece consigliare di rimanere a casa per non esporsi a rischi inutili. Strumenti che ogni giorno vengono aggiornati, man mano che si accumulano nuove conoscenze su questo virus mai visto prima.
Ci vogliono reparti e terapie intensive dedicate
E cominciano ad arrivare anche nuove disposizioni di servizio. Le ferie vengono sospese, i turni rinforzati, le attività degli ospedali rimodulate. L’intero sistema va riorganizzato su misura. Servono i dispositivi di protezione, e ci vuole tempo perché arrivino, ma le richieste di soccorso e gli accessi in ospedale non aspettano. Ci vogliono reparti e terapie intensive dedicate.
Tutto va costruito con delicatezza su fondamenta non proprio solidissime, indebolite da anni di tagli alla sanità. Un po’ alla volta, lentamente, senza grande rumore, sono diminuiti i posti letto, sono calati i fondi destinati alla salute pubblica.
Se questa nuova struttura sta reggendo, pur con alcuni scricchiolii, è perché dentro a quegli ospedali ci lavorano persone che hanno a cuore ciò che fanno
Non è una sviolinata, non lo dico solo perché ci sono in mezzo anch’io. È un’evidenza. All’improvviso la gente si è accorta che esistiamo, che facciamo turni difficili, che dedichiamo buona parte del nostro tempo agli altri, a chi sta male, assumendoci ogni giorno dei rischi.
Lo facevamo anche prima del coronavirus, solo che forse tutti lo davano un po’ per scontato. Adesso invece compaiono striscioni fuori dagli ospedali con scritto “grazie”, ci sono ristoratori che si presentano in ospedale con decine di pizze gratis, vengono diffuse immagini di angeli con il camice che cullano amorevolmente l’Italia.
Io stesso ho ricevuto molti messaggi da amici e conoscenti che volevano dimostrare la loro gratitudine per ciò che io e i miei colleghi stiamo facendo e per chiedermi come sto, come stiamo vivendo noi questa epidemia.
Con fatica. La stiamo vivendo con fatica
Come ho scritto, i turni sono più pesanti del solito, saltano i riposi e le ferie, ci sentiamo esposti. La tensione e la pressione si fanno sentire. Ma non importa, è il nostro lavoro, continuiamo a farlo. Speriamo che finisca tutto presto, ma non molliamo la battaglia, non scappiamo.
Tutto questo non ha nulla a che fare con l’eroismo. Ripeto, è il nostro lavoro. Se ci dicono che da oggi il nostro reparto accoglierà i pazienti positivi, non facciamo altro che studiare le nuove disposizioni, ripassare come indossare le protezioni e, cosa più importante ancora, come toglierle alla fine.
Ci aggiorniamo e mettiamo in pratica tutte le misure possibili per contenere il problema. E sì, penso di poter dire che siamo preoccupati.
Siamo preoccupati perché siamo umani, in tutti i sensi. Perché proviamo emozioni. Perché possiamo ammalarci e possiamo portare a casa virus e batteri
Lo facciamo solo per lo stipendio?
Quanto può valere lo sforzo che stiamo facendo? Quanto possono valere i rischi? Si possono esprimere in termini economici? Quale sarebbe una cifra adeguata? Ognuno può dare la risposta che crede. La mia risposta è che lo facciamo perché è il nostro lavoro, perché ci sono persone che contano su di noi, che loro malgrado non possono fare a meno di noi.
È noioso, è difficile, è un sacrificio. Noi ne sappiamo qualcosa di sacrifici, ma i nostri da soli non possono ridurre il contagio. Sono le piccole cose che contano, quelle a cui non diamo peso. Non possiamo più ragionare solo per noi stessi, come singoli. Non possiamo permetterci il lusso di dire “ma sì, cosa vuoi che sia se esco a fare una passeggiata o se vado dagli amici?”. Si avvicina la primavera, le giornate si allungano e le temperature sono invitanti. È difficile ma dovete stare a casa.
Se noi siamo al fronte, voi siete quelli che invece di stare nei rifugi stanno passeggiando sotto ai bombardamenti. Questa cosa non la sconfiggeremo negli ospedali, ma nelle nostre case, offrendo al virus meno possibilità di diffondersi. State a casa, lo avete capito? Dovete stare a casa!
Se non ragioniamo come un popolo, se non capiamo che serve il contributo di tutti, la perdiamo questa guerra. I nostri nonni lo sapevano. Noi invece siamo “nati nel bombaso”, come avrebbero detto loro. Non abbiamo la mentalità del sacrificio, dello sforzo collettivo, del darsi tutti una mano. Ma sarà meglio che ce la facciamo venire.
E al più presto.
- Un infermiere veneto
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