Storie. Tutti noi siamo delle storie e tutti noi siamo in cerca di storie. Storie in cui riconoscerci, storie dalle quali imparare qualcosa (molto spesso, su noi stessi). Quelle che Roberta Giglietti, infermiera riminese, ci racconta sono sempre storie "diverse", storie di intercultura. Roberta è stata in Sudan con Emergency e ha visto il centro pediatrico di Mayo, dove un'ecografia costa un euro, ma non se la possono permettere. Dove l'ospedale è gratuito per i bambini sotto i 5 anni, ma dopo 24 ore di cure non hanno più risorse per sostenere le terapie, perciò o paghi o esci. E dove gli infermieri spiegano che questa è la più grande frustrazione del loro lavoro: un lavoro lasciato a metà. Ma dove, per fortuna, non è sempre così.
Roberta, infermiera in Sudan con Emergency: Ho visto il quarto mondo
Mayo, Sudan
Oggi mi hanno proposto di andare a visitare un'altra realtà di Emergency , qui in Sudan. Il centro pediatrico di Mayo . Un progetto che nasce ai confini di un campo profughi provenienti da vari paesi: Uganda, Etiopia, Rep Centro africana e non solo. Per la prima volta dal mio arrivo sono uscita da questa bolla in mezzo al deserto ed ho visto...
Fuori c'è l'Africa che ho conosciuto in Sierra Leone , la povertà dove il nulla è già tanto (per capirci). C'è il deserto, km di nulla e come unica vegetazione arbusti qua e là, addobbati come alberi di natale da sacchetti di plastica di tutti i colori che, grazie al vento caldo e secco che tira costantemente, si fermano lì, incastrati fra i rami.
Ci sono anche carcasse di bovini, suppongo mucche. Il deserto si alterna ad abitazioni fatte di mattoni e fango, polvere e cristiani. Anzi, musulmani. Nient'altro.
Il centro nasce per assistere i bambini del campo profughi che negli anni è diventato una città di baracche che si estende a perdita d'occhio. Il lavoro sembra più inserito in un contesto africano rispetto al centro di cardiochirurgia.
Fuori, nel deserto, sono già in fila decine e decine di donne con bambini malati che hanno necessità di far visitare. I cancelli si aprono e la mia collega, con la collaborazione dei mediatori nazionali, fa triage .
Non più di 50 accessi, che poi diventano 60/70, perché non hanno coraggio di lasciare sotto 40° i bimbi restanti. Ma devono. Non si può, non ci sono “le forze per tutti".
Se non sembrano palesemente gravi devono tornare il giorno dopo; 70 bambini in braccio alle mamme sotto una tenda e in mano un codice, verde o giallo per i più urgenti. A tutti temperatura e un'occhiata veloce, qualche informazione per selezionare.
Quelli con più di 39°C, cartellino giallo. Sotto i 39... il verde. Macchie o problematiche cutanee: percorso differente (morbillo ? O chissà che).
I primi 15 entrano in un primo ambulatorio: peso, altezza e paracetamolo. Poi si entra dal medico (l’unico medico) per la visita; se necessario esami ematici o colturali. A fine mattinata, risposta esami e si valuta. Se necessario terapia antibiotica, ma per lo più integratori e paracetamolo. I più gravi vanno in word (letti), aerosol, vena, liquidi.
È il turno di un piccolino di un mese: 39° di temperatura, 6 di emoglobina, distress respiratorio palese, ipotonia, 50% di saturazione in aria ambiente. Vena, occhialini con ossigeno, prima dose terapia antibiotica. Bisogna andare in ospedale . Chiamiamo la macchina Emergency attrezzata con ossigeno e si parte.
Le condizioni del piccolo sono veramente brutte. Ce la faremo?
Arriviamo in ospedale. Non so trovare le parole per descriverlo. Una costruzione fatiscente, piena di gente ovunque. Non hanno ossigeno. Dobbiamo andare in un altro ospedale. Si riparte... prima di scendere al secondo ospedale la mia collega ci precede, per andare ad accertarsi che abbiano l’ossigeno. C'è. Un bombolone solo in un triage pediatrico brulicante di bambini.
La dottoressa (africana) ci tranquillizza, gli troveranno un posto letto. Salgo per vedere le stanze: 20/25 letti in una stanza ma... almeno c'è l'ossigeno.
Lasciamo il bambino, la mamma e la sorellina già velata in testa che piange per lui e mi chiedo chissà anche per che cos’altro.
Gli ospedali, qui, sono a pagamento tranne per i bimbi sotto i 5 anni. Ma in realtà dopo 24 ore di trattamento dicono di non avere le risorse per sostenere le terapie perciò... O si paga o si esce. La mia collega mi spiega che è la più grande frustrazione di questo lavoro, un lavoro spesso lasciato a metà. La capisco. Però non è sempre così.
Il centro di Mayo fornisce le prime cure, a volte risolutive, ma soprattutto un importante centro di prevenzione. Ci sono le "health promoter", ragazze nazionali istruite che insieme ai "nostri" portano avanti progetti di prevenzione sulla malnutrizione; 3 volte a settimana c'è il progetto cooking class. Oggi ne ho fatto parte. Si insegna alle mamme a cucinare, 5 o 6 ricette semplici, ma bilanciate con i prodotti basici, normalmente a loro disposizione.
Abbiamo cucinato insieme , io ho sbucciato un quintale di aglio. Loro mi parlavano in arabo e le mediatrici traducevano per me. E poi, mentre la pentola cuoceva, la health promoter ha spiegato alle donne le regole base d'igiene, quali alimenti e come utilizzarli, cosa fare e cosa non fare. In arabo, ovviamente.
Un altro progetto è per le donne in gravidanza. Un monitoraggio di base per battito del feto e dimensione della pancia della madre. Siamo in ramadan e le donne digiunano : non si beve, 40 gradi… Provate ad immaginare.
Si fa prevenzione per le eventuali problematiche anche legate al parto (ovviamente in casa). Terapia per infezioni urinarie e per tutte le problematiche che possono riguardare una gravida. Con la solita frustrazione di un lavoro lasciato a metà nel caso sopraggiungessero problemi.
Un’ecografia costa un euro, ma non se la possono permettere. E un taglio cesareo per pre-eclampsia? Parto gemellare? Aumento di liquido amniotico patologico? Però capisco che è importante, perché un passo alla volta si sta creando una coscienza e una conoscenza nuova in questo popolo dove le donne contano solo per fare figli. Cominciano a 13 anni. Uno all'anno fino a 15 figli ciascuna.
Le promoter spiegano un'altra possibilità di vita che, anche se non è ancora attuabile nell’immediato, crea una consapevolezza nuova e la prova è l'affluenza delle donne. Non camminerebbero sotto il sole per venire lì se non capissero in qualche modo il perché.
Stringo l'ultimo buco della cintura dei miei jeans. Sono disidratata , ma vorrei restare lì e tornare a lavorare lì domani, perché capisco il senso di quel lavoro. Anche solo guardando quelle ragazze che "ora sanno" e insegnano a chi ancora non sa. Già questo passo mi scuote e mi fa commuovere.
Avrei voluto rubare una fotografia per immortalare questi momenti di passaggio culturale. Ma non posso, perciò li ho scritti subito per non perdere l'immagine ai miei occhi. Alla fine ho fatto una cosa proibita, ma la mia collega ha strizzato un occhio. Sono salita su una torretta, la scala di metallo era ripida e scottava. Da lassù si vede il quarto mondo. Ho rubato una foto. Spero non se ne accorgano e non mi arrestino.
Roberta Giglietti
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