Parlare delle vie di mezzo mi è facile. Almeno mi piace crederlo. Parlare delle scoperte, dell’apprendimento graduale, dell’adattamento a qualcosa che si insinua lentamente. Questo rispecchia me e il mio ambito di lavoro. Benvenuti in medicina interna, dove tutti non vogliono stare, ma da dove tutti passeremo.
Medicina interna, dove prima o poi passeremo tutti
Lo dicono gli studi e gli studiosi, questa popolazione invecchia e vive sempre di più con malattie croniche. Il verbo “vivere” per me è fondamentale, perché l’essenza della cronicità sta nel fatto che diventa vita stessa la malattia che si insinua e impara a vivere con noi e insieme a noi, come noi con essa.
Ho scoperto questa professione proprio come fanno loro, con un inizio che lascia comunque la porta aperta all’uscita. Come quei pazienti che si trovano di fronte a qualcuno che gli dice: “alterata glicemia a digiuno”. Non stiamo parlando di malattia, con qualche mossa puoi uscirne. Ma forse qualcosa si è già insinuato e il percorso per uscirne non è facile come la proposta.
Così mi sono affacciato alla professione, gradualmente, scoprendone bene e male. Solo l’inizio però, perché è ancora presto per pretendere una conoscenza che sia anche solo degna di essere chiamata tale.
Immagino che così si affaccino i “miei” pazienti ad ogni ricovero. Li vedo sbucare sempre da quei due ascensori, loro forse tranquilli. Noi che li aspettiamo con un po' di pensieri su cosa scopriremo. Con incertezza. Immagino persone che conoscono bene loro stesse, ma non sempre conoscono il nuovo “sé”, l’altro. Disease.
Una riflessione su quello che facciamo e come lo facciamo
Arrivano e qui si inizia. Mi stupisce sempre il confronto tra l’esattezza della medicina - almeno teorica - e le persone con cui essa deve confrontarsi. Complessi nel reciproco adattamento. Mi stupisce come a volte si ci dimentichi troppo facilmente di come andrebbero adattate le cose alle persone. Attenzione questa non è una denuncia sanitaria, no. Vorrebbe essere una riflessione su quello che facciamo e su come lo mettiamo in atto.
La riflessione nasce da esperienze dirette e racconti di colleghi a me vicini. Ascoltare. Adattare non vuol dire essere o diventare superficiali. Una persona di 80 anni non può essere trattata non adeguatamente, perché dobbiamo “personalizzare l’assistenza”.
Perché chi abbiamo di fronte può non avere certi strumenti e noi, che magari conviviamo con situazioni numeriche complesse, mancanze o altro ci permettiamo di riversarle su di loro.
Chi scrive si autodenuncia perché lo ha fatto, ma ha anche imparato a rifletterci su per non sbagliare di nuovo. Ditemi che è almeno un inizio, questo
Va capito come trovare il giusto equilibrio tra possibilità e reale tolleranza. Facile da scrivere, quasi impossibile da realizzare. Ma la costante ricerca di questo fine a mio parere diventa fondamentale nel lavoro di tutti i giorni, fatto di frenesia ed errato spegnimento del cervello a favore della quantità di assistenza.
Mondo di numeri.
Le sfumature di pazienti trovano colore nel mio lavoro, dove persone che per lo più non hanno quasi mai chiaro il motivo delle mille cose che facciamo si interfacciano a professionisti che non vanno oltre i 30 anni di età per lo più.
Prelievi seriali contro costante fastidio della sveglia alle 5. “Boccette” colorate che interrompono il sonno, ma scandiscono gli orari della giornata. Vi siete mai chiesti quanto sia importante scrive l’orario sulle flebo? Sì, ok, utile per noi così ci ricordiamo quando facciamo qualcosa. Ma vedo un sacco di pazienti leggere cosa è scritto sopra per regolarsi. Imparare chi e per cosa deve venire il giorno dopo. Qualche ora dopo. Non è poco. È quasi una guida.
Divise verdi che intervallano divise bianche, ma che vengono viste tutte allo stesso modo. Qualcuno che entra e si occupa di me. A loro basterebbe questo pezzo, fino a lì. Concretezza della conoscenza contro spensierata, ma impaurita ignoranza. Uguale grigio.
Attenzione però: non è un grigio che spegne. Un grigio ottenuto dalla mescola di tutto quello che incontriamo ogni giorno, da usare come base per mettere su il resto. Che poi, in realtà, il colore non si ottiene mettendo insieme bianco e nero?
Allora come si spiega la polifarmacoterapia a queste persone? Credete davvero che chi assume 14/15 compresse al giorno non possa subire le conseguenze dell’aggiunta o del depennamento di una di esse? Chi ha esperienza diretta sa che è maledettamente difficile l’educazione, l’accettazione e l’utilizzo di un qualcosa di nuovo.
Che obiettivo ci diamo quando li abbiamo di fronte?
Di nuovo siamo nello sfumato. Qui bisognerebbe mettere una freccia e scavare dentro le cose per capire cosa davvero facciamo per migliorare questi passaggi. Come si ci rapporta con persone che sanno bene che il passato che hanno è più grande del futuro? Che obiettivo ci diamo quando li abbiamo di fronte?
Spesso lo sappiamo che chi abbiamo davanti non ha molto ancora da affrontare. Lo dicono i dati, ma i più esperti mi dicono che esiste come un senso che si acuisce con il tempo. Il tuo corpo impara a dirti e darti sensazioni che ti aiutano a discriminare le situazioni. Non sempre giuste. Vale anche per loro però, ma spesso ci dimentichiamo di questo “dettaglio”.
Ma se, ad esempio, anche le cure palliative falliscono su un paziente, cure facili ma complessissime allo stesso tempo, qualcosa non sta funzionando. Un parente che prova ad accettare quello che accadrà e in più deve soffrire perché il suo caro non è in pace è un fallimento. E la persona stessa, allora?
Riflessione. Tempo per fermarsi. Ma quando? Qui forse entriamo in gioco noi esseri umani, non professionisti. Qui forse meritiamo un po' di tolleranza, perché spesso non sapere cosa succederà quieta i sensi. Noi lo sappiamo, almeno pensiamo, lo vediamo e ve lo teniamo nascosto.
Ma non possiamo nasconderlo a noi stessi, dateci un attimo per avere paura. Ma noi, dopo questa piccola concessione, scacciamola questa paura, proviamoci. Perché non siamo noi i protagonisti, sono altri in quel momento.
Dobbiamo essere uno sfondo che da senso alla scena ma che non intralci, per favore. È forse orribile usare il termine “proviamoci” sulle persone. Assolutamente scorretto. Ma non è anche un segreto svelato? Perché a volte non lo sappiamo neanche noi come va a finire la storia.
A parole ci piace dire “qualità della vita”. Perché nelle realtà operative molto spesso, nonostante tutti conoscano il termine, l’obiettivo vero e annunciato è la quantità? Il restituire alla persona un numero di anni/mesi/giorni che starà a lei sessa decidere come usare. Questo è un meschino passaggio di testimone.
Forse certe azioni le facciamo con la supponenza di chi sa che se ti restituisco anche solo un po' di salute e benessere tu, anche se non lo sai adesso, ne sarai felice. Chiedo a chi ha più esperienza: può essere così?
Vero, nessuno ha il diritto di decidere per la vita di un altro. Non solo inteso in senso estremistico - quindi vita o morte - ma anche a riguardo di determinate azioni che danno conseguenze permanenti.
Però i professionisti sanitari hanno una responsabilità di cui spesso si dimenticano. Hanno fatto un percorso che tenta in qualche modo di fornire loro strumenti per scegliere. Attesa o azione sono entrambe scelte, decisioni. Vanno prese e spetta a noi prenderle.
Tutto questo discorso fila non tenendo conto della società esterna che ha preso un indirizzo che spesso sembra andare in direzione opposta. Ma per un attimo non interessiamoci degli altri. Parliamo di noi.
Come possiamo aiutarci a scegliere? Come possiamo convivere con questo mondo sfumato? Chi scrive non ha la risposta, ma cerca ogni giorno di scoprirlo. Certo che iniziare a farsi le domande giuste dà l’opportunità di fare qualcosa. Allora proviamoci, il primo che scopre la formula la condivida, però. Per il bene di tutti. Di nuovo un processo lento, graduale, un percorso.
- Massimiliano Volo, Infermiere
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