Zygmunt Bauman la definisce società liquida, quella società dove non esistono ancore e tutto pare scorrere in un vorticoso fiume d’acqua. Dove tutto viene travolto. Una società dove non esiste né il prima né il dopo. Dove esiste solamente ciò che appare, ciò che fa cassa di risonanza, ciò che i social replicano. Anzi: più replicano e più sei, più esisti. Tutto ciò, purtroppo, vale anche per noi infermieri. Non possiamo nasconderlo. Non possiamo pensare di essere immuni dalle caratteristiche del tempo che stiamo vivendo. Siamo, cioè esistiamo, solamente se si parla di noi. Siamo se, quando si parla di noi, i toni sono di primato, di esclusività. Altrimenti non siamo. Chi ha deciso di decidere deve cominciare a riflettere sulle reali condizioni della nostra categoria. Altrimenti continueranno a essere rappresentanti di un mondo virtuale, liquido, che non servirà a edificare nulla di solido, duraturo e futuribile.
Siamo pochi e tormentati da mali che al momento paiono insanabili
Secondo il rapporto OCSE 2019 siamo sempre di meno, noi infermieri italiani. Numericamente siamo precipitati a 5,5 unità ogni mille abitanti.
Sempre la OCSE ci dice che la nostra media per abitante dovrebbe essere a 8,9. Inutile, siamo in fondo alla classifica mondiale. Dietro di noi solo altre otto nazioni. Sopra di noi, invece e non solo, la Francia 10,3%, la Germania 12,9%, la Svezia 10,9; tutti dati su cui riflettere.
Ma siamo così certi che chi è deputato a riflettere sul nostro mondo sia concentrato su quello che risulta essere il problema più grave, insieme alla questione remunerazione, che affligge la nostra professione?
Siamo pochi e tormentati da mali che al momento paiono insanabili. Sappiamo tutti che più si riduce il numero di infermieri presenti in corsia e maggiore è il numero di decessi che colpisce le stesse. Problema noto, ma ancora e sempre senza soluzione.
Certo noi infermieri si deve essere contenti, ad esempio, dei reparti a conduzione infermieristica. Una vera e importante condizione, impensabile sino a pochi anni fa, che i nostri vertici sono riusciti ad ottenere. Però, c’è un però in tutto questo.
Quanti sono i colleghi infermieri che possono dire di trovarsi al timone di qualcuno di questi splendidi motoscafi? 15 per reparto? 20? Per esempio una città come Genova ha più di 8.000 iscritti. Numericamente quanti sono i piloti dei motoscafi? 50, 100? E tutti gli altri che guidano semplici barche a remi?
Altro momento elitario della nostra professione è quello relativo al Master universitario in Assistenza Infermieristica Territoriale e Cure Domiciliari. Inutile negare l’esigenza sociale di dare copertura assistenziale alle persone che vivono oltre le città.
Ma siamo certi che le competenze atte a garantire un’assistenza effettuata in regime di sicurezza, a persone affette da patologie croniche, possano essere sviluppate solamente mediante una prassi universitaria? Facendo, così, spendere altri soldi agli infermieri. Perché, per inciso, si tratta di offrire adeguata assistenza a malati cronici e/o offrire assistenza per piccoli eventi traumatici assolutamente differibili dall’accesso nei Pronto soccorso.
Se veramente si vuole crescere, se veramente si desidera aumentare le nostre aspettative professionali e, quindi, creare un vero senso comune di appartenenza verso la nostra professione, è necessario un cambio di rotta. Si rende necessario non pensare più a piccoli, veloci ed eleganti motoscafi, ma si deve iniziare a costruire transatlantici grandi e sicuri su cui la maggior parte di Noi Infermieri possa salire.
Purtroppo nella nostra professione esistono passeggeri di seconda e terza classe e altri che non riescono a permettersi un viaggio professionale dignitoso
A bordo del Transatlantici Infermieristici devono poter salire le partite IVA, quelle che non sono state poste nelle condizioni di potere scegliere, devono salire i colleghi che lavorano, obtorto collo, in RSA. Infermieri, anche loro, che non hanno avuto possibilità di scelta.
Vorrei vedere sul ponte del nostro transatlantico tutti quei colleghi che lavorano con poche garanzie, coloro i quali sono costretti a turni massacranti e fanno fatica a trovare dignità nel loro agire quotidiano.
Vorrei vedere prendere l’aperitivo sul ponte insieme al Comandante del Vapore quei giovani colleghi che per tre anni tre, si sono sacrificati per ottenere la Laurea in Infermieristica e il risultato non è consono alle loro aspettative e a quelle indotte. Quei giovani, cui in Università, era stata ventilata la conquista della Terra Promessa e invece, purtroppo, la nave è partita senza di loro.
Ma finora nessuno sta pensando alla costruzione del transatlantico. Chi è sul ponte di comando continua ad avere una visione solamente ospedalocentrica. Ci si sta dimenticando che, oramai, circa il 30% di noi infermieri lavora in Aziende private. E tra questi vi sono quelli privilegiati che hanno potuto scegliere il proprio percorso professionale, ma sono pochi; gli altri, la grande maggioranza, invece, sono dei costretti.
Questa per la nostra categoria professionale è la grande sfida del terzo decennio del 21esimo secolo. La sola prospettiva consentita per lo sviluppo, duraturo, del nostro essere professionale.
Chi ha deciso di decidere deve cominciare a riflettere sulle reali condizioni della nostra categoria. Altrimenti continueranno a essere rappresentanti di un mondo virtuale, liquido, che non servirà a edificare nulla di solido, duraturo e futuribile
Si rende necessaria la loro uscita dalle vetrine, si rende obbligatoria la discesa nel mondo reale, quello che, nel medio e lungo periodo ti fa chiedere se la professione che hai scelto è quella giusta. Se forse non sarebbe stato meglio opzionare altre strade.
Come dice E. Morin: tutto ciò che non si rigenera degenera.
matteo712
1 commenti
Articolo stupendo
#1
Hai espresso a pieno il mio, e di molti colleghi,pensiero.