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editoriale

Di quale infermiere ha necessità la nostra società?

di Fabio Albano

Ho trovato le interviste rilasciate al Direttore di Nurse24.it Iacuaniello dalla Professoressa Cantarelli e dalla Dottoressa Silvestro interessanti e meritevoli di riflessioni. Parto dalla conclusione della loro chiacchierata, dove auspicano una ripresa del dibattito e del confronto sul tema relativo alla nostra professione e ai suoi lenti sviluppi. Da qui la mia esigenza di porgere un piccolo contributo alla discussione.

Sull’importanza della formazione nello sviluppo della nostra professione

Il primo desiderio che avverto è di dire loro “grazie”, perché in tempi assolutamente “non sospetti” avevano intuito l’importanza della formazione nello sviluppo della nostra professione. Loro, 40 anni fa, avevano compreso ciò che, a oggi, tanta parte della nostra vita politica ancora fatica a intendere e cioè: la conoscenza è indispensabile per la crescita del Paese. La loro duplice intervista è incentrata sulla crescita professionale di noi infermieri attraverso la formazione universitaria. Restando in tema, sento il dovere di porre all’attenzione alcune considerazioni.

La prima è che la qualità, tanto auspicata da ogni parte e dove della sanità, è possibile solo se le conoscenze non rimangono divise in settori rigidi, ma risultano interconnesse e dialoganti tra loro. Ne consegue che il mondo universitario deve parlare con gli altri mondi, in primis quello dove viene messa in atto la pratica clinico-assistenziale. E questo lo dice pure la professoressa Cantarelli. Ma non solo, deve esistere interconnessione e interrelazione con tutto il mondo delle professioni sanitarie.

La crescita di un solo settore professionale non si rende possibile, specie in questo momento storico di grande crisi economico-sociale. Il valore sociale proviene, anche, dalla capacità di aggregazione. L’isolamento professionale, invece, è propedeutico alla stagnazione se non all’emarginazione. Onestamente la stanza dei bottoni è una condizione che abbiamo sempre criticato.

Ciò che va posto in evidenza è come strutturare la formazione pensando, sempre, a chi viene offerta. La prima condizione che si deve considerare è il pattern della nostra professione. Pattern che, al momento, non è ancora stato definito. Diverse sono le aspettative di ogni singolo soggetto così come differenti appaiono le esigenze lavorative che questo nostro modello sociale ci impone di osservare. Nell’intervista, sia la Professoressa Cantarelli che la Dottoressa Silvestro pongono in evidenza l’aspetto assistenziale. Il sistema sanità si dovrà aprire sempre più al territorio offrendo competenze e conoscenze a oggi non ancora in essere. Ci stiamo dirigendo verso una sanità non più ospedalocentrica. Per questo diventa essenziale stabilire chi è e cosa fa l’infermiere.

Il grande dubbio che va risolto è quello relativo alla specializzazione post base. Di quale infermiere ha necessità la nostra società? Si dovrà trovare un giusto equilibrio tra olistica e specializzazione tenendo ben a mente che la “frammentazione del sapere depaupera la conoscenza”. Questa sarà una delle battaglie che la nostra professione dovrà affrontare in tempi brevi.

Abbiamo necessità di creare una rete del sapere in modo tale da distribuire la conoscenza in maniera capillare. Perché ciò si renda realizzabile si devono porre in chiaro i ruoli di tutti i soggetti impegnati nel nostro mondo professionale. È giunto il momento di fare il salto di qualità passando da una epistemologia classica a una complessa, dove nessuna struttura è gerarchica perché nessun livello è fondamentale se non quello operativo. In fondo unico motivo di esistenza dei dubbi e delle motivazioni che conducono al ripensamento dei modelli operativi e formativi.

Nell’intervista ci si pone il quesito su quale modello proporre per promuovere il cambiamento. La risposta, in parte, può essere interpretata nella lettura delle righe qui sopra. In altra parte si deve convenire e sostenere la discussione. Gli OPI, le Associazioni, i luoghi di cura e, perché no, le Università devono diventare ambienti aperti e propedeutici al confronto, al dubbio e, quindi, al cambiamento.

L’immobilismo posto in essere da chi ha trovato luoghi di egocentrismo mal si sposa con le intenzioni di cambiamento. Anzi risultano proni all’indifferenza e alla non cura del proprio agire professionale. I luoghi di “potere”, di centralismo non partecipativo nuocciono alla salute della nostra professione. Esistono dicotomie che al momento appaiono insanabili tra teoria e pratica. Non si può pensare di agire verso il cambiamento se tutto ciò che si provoca è l’inerzia.

L’egocentrismo, che troppo spesso ci appare, vede sviluppare due condizioni. La prima di esclusione; cioè quello spazio è occupato solo da quell’individuo. La seconda di inclusione; includo solo chi mi interessa. Perché il cambiamento, da noi tanto auspicato, abbia luogo dev’essere rispettato il principio di realtà. Altrimenti, se non lo si rispetta, si manifesta l’incapacità al mutamento. In fondo tutto ciò che non si rigenera, degenera.

Ciò che noi infermieri dobbiamo imparare a conoscere è solamente il primo principio della termodinamica, che recita: l’energia di un sistema termodinamico isolato non si crea né si distrugge, ma si trasforma passando da una forma all’altra. Quindi dobbiamo porci alla conduzione del cambiamento.

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