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Editoriale

1 maggio 2019, le nostre scomode verità di Infermieri

di Fabio Albano

Come ogni anno la festa del 1 maggio viene vissuta come un momento di evasione dalla routine e dai problemi quotidiani. Una gita fuori porta, con le persone a noi più vicine, ci pone sul rettilineo della bella stagione, quella che aspettiamo per sei lunghi mesi. Una sorta di catarsi psico-fisica. In realtà il 1 maggio dovrebbe essere la festa della riflessione sulla condizione in cui i lavoratori si trovano ad affrontare un loro diritto sancito, anche, dalla nostra Costituzione. Oggi il lavoro, inteso come espressione di benessere individuale posto all’interno di una condizione di benessere sociale, non esiste quasi più. Esistono varie forme di lavoro la cui gran parte svilisce ogni profilo di benessere sociale personale. Questa triste condizione riguarda pure noi Infermieri. Inutile negarlo.

Festa del lavoro, un'analisi della situazione infermieristica

Partendo dal presupposto che il concetto di verità non è uno solo e la rappresentazione della stessa dipende dalla parte del bancone cui sei posto o dagli occhiali che si indossano, si possono comunque definire “scomode” alcune rappresentazioni di una certa verità.

La prima scomoda verità che ci riguarda è relativa alla nostra identità. Inutile nascondersi dietro a un dito, noi Infermieri non sappiamo più chi siamo.

Siamo coloro che si pre-occupano del ben-stare dei Pazienti a 360°? O siamo coloro i quali interpretano il nostro ruolo sociale come un mero esercizio tecnico? Siamo quelli che pianificano l’assistenza o siamo, anche, quelli che si fanno carico direttamente dell’assistenza ai Malati. E caso mai esistesse, qual è il labile confine tra le due citate condizioni?

Questa direzione di pensiero ci conduce a una riflessione, scomoda, ma reale: chi è che può essere definito Infermiere? In nuce, si può fregiare del titolo di Infermiere anche chi ha un ruolo da Dirigente e ha perso ogni minimo contatto con il ruolo d’origine? Può chi vive nei piani alti del palazzo comprendere le reali esigenze degli operatori e soprattutto dei Pazienti/Malati?

Domande queste che troveranno due risposte contrapposte; come detto la verità dipende dagli occhiali che si indossano, quindi non verità come concetto assoluto, ma verità come concetto soggettivo. Da qui il contrasto.

L’Infermiere è colui il quale sa individuare e ben rappresentare le esigenze delle varie tipologie di Pazienti/Malati, facendosi promotore di un approccio sistemico nei confronti dello stesso? O è colui il quale ha fatto proprio un sapere frammentato che lo ha condotto a una parcellizzazione del proprio agire?

Chi ha deciso di farsi carico delle vicende altrui ha il diritto-dovere di andare oltre il proprio sentire personale

Nell’ambito di questa prima grande scomoda verità esiste la non congrua visione tra chi opera la propria professione in ambito pubblico e chi, invece, in ambito privato.

In Liguria, ad esempio, il rapporto tra Infermieri dipendenti pubblici e non è di circa 4 a 1; cioè ogni 100 Infermieri in area pubblica 25/30 sono gravitanti nell’orbita del privato. Privato inteso, anche, come partita Iva.

Sono dati che devono far riflettere tutta la nostra categoria. Nessuno escluso. Sono finiti i tempi in cui essere Infermiere significava automaticamente essere un dipendente pubblico. Oggi esistono condizioni sociali tali per cui questo automatismo è andato a cadere.

Si può anche scegliere, per svariati motivi, di non essere parte del carrozzone pubblico e orientarsi verso dinamiche professionali differenti. Magari mettendo in gioco le proprie conoscenze e competenze professionali. Magari mettendo in predicato il proprio futuro.

Certo chi ha scelto strade differenti dal pubblico può essere considerato, oltre che coraggioso, Professionista privilegiato. Privilegiato perché posto nella condizione di poter scegliere. Ma scegliere pone sempre la Persona in una condizione di difficoltà psicologica, perché un’opzione esclude, automaticamente, l’altra.

Ma, purtroppo, esistono e rappresentano una grande parte della nostra professione, giovani Colleghe/i cui non è dato poter scegliere. Questi si trovano a dover accettare condizioni professionali che, probabilmente, in ambito universitario non erano mai state prospettate loro.

Il lavoro, in regola e certificato, offre dignità sempre e comunque quale esso sia. Anche i lavori apparentemente più umili servono a offrire dignità alle Persone. Ma certo se nei tre anni di corso di Laurea, in cui ti certificheranno come Dottore, ti viene solo prospettato un futuro professionale in ambito ospedaliero pubblico, ogni possibile differente condizione può essere vissuta come mortificante, vessatoria. Distante dal tuo immaginario.

Però, non dimentichiamocelo: sempre di essere umani in condizione di difficoltà ci andremo a occupare. L’essenzialità del nostro agire professionale quotidiano

Naturalmente il nostro agire professionale quotidiano in ambito privato risulta differente a seconda delle peculiarità dell’azienda presso cui operiamo. Lavorare in una grande struttura privata-convenzionata offre determinate condizioni professionali, vedi una certa garanzia di futuro lavorativo; inoltre il nostro ruolo risulta ben chiaro ed evidente a tutti.

Lavorare in una R.S.A., invece, può determinare condizioni lavorative maggiormente disagevoli e faticose. Certo non si può e non si deve fare di tutta l’erba un fascio, ma questo è il sentimento comune nella nostra categoria.

Ciò che accomuna quasi tutti noi Infermieri operanti in ambito privato, è la propensione a voler essere parte integrante di un determinato progetto. Sentirsi parte in causa, responsabili del proprio operato. Essere meno schiavi di un agire prigioniero di un settarismo professionale che determina limiti oramai obsoleti.

Le sorti dell’Azienda presso cui un Infermiere opera sono le sorti dell’Infermiere stesso. Essere parte di un progetto significa, pure, essere parte del rischio d’Azienda.

Ben differente è lavorare presso una struttura dove sono utili solo delle braccia. L’arte del pensare non sempre è richiesta. Bene, anzi male, i nostri Colleghi che si trovano a operare in queste condizioni professionali, senza entrare nei mini dettagli, sono Infermieri difficilmente gratificati professionalmente. Ne hanno ben donde. Da lì il loro, legittimo, desiderio al cambiamento.

Infermieri e rappresentanti di categoria

Questa breve, seppur intensa, disamina di una certa parte della nostra professione ci conduce alla seconda scomoda verità: la rappresentazione della nostra categoria.

Sostanzialmente noi Infermieri siamo rappresentati da due macro categorie extra-professionali: i Sindacati e gli O.P.I.

Intanto, perché extra-professionali? Perché esistono come conseguenza della nostra esistenza. Particolare non da poco. Purtroppo il susseguirsi delle nostre vicende professionali ha prodotto una dicotomia, con entrambe le rappresentanze, al momento distante dall’essere sanata. Andiamo, molto brevemente, per ordine.

I Sindacati, necessari alla difesa di ogni ruolo lavorativo, negli anni hanno perso credibilità e seguito a causa dell’agire affaristico, privato e personale di chi invece, si era offerto alla protezione del lavoro e dei lavoratori. Troppi sono stati gli errori dei singoli e di strategia in cui sono inciampati negli ultimi 30 anni. Una, da parte loro, miopia stereotipata ha fatto sì che venisse meno, da parte dei Lavoratori, la fiducia in questo tipo di istituzioni. Come spesso accade le idee erano buone, ma gli uomini non sono stati sempre in grado di metterle in pratica.

L’altra Istituzione che ci dovrebbe rappresentare sono gli O.P.I. Il condizionale mi pare d’obbligo, perché esiste, anche, un importante sentimento di non percepita rappresentazione.

Come detto prima, ormai il 25/30% di noi Infermieri non è un dipendente pubblico, eppure negli O.P.I. non sempre veniamo rappresentati con le adeguate proporzioni. Anzi spesso non siamo proprio rappresentati. Molto spesso i nostri giovani Colleghi non trovano alcuna rappresentazione. Non esiste un ricambio generazionale, non esiste volontà di democrazia partecipativa all’interno di queste istituzioni. Difficilmente vengono rese pubbliche in tempi congrui le date delle future elezioni. Si fa in modo che tutto cambi affinché nulla cambi.

Queste condizioni fanno sì che la nostra categoria professionale non trovi appeal in questa istituzione che, a mio avviso, riveste un ruolo di rappresentazione sociale e professionale, inter pares, notevole.

A onor del ver non tutti gli O.P.I. sono così come li ho tratteggiati in questa mia parziale disamina. Alcuni Amici di certi O.P.I. sanno qual è il mio pensiero in merito. Non li nomino perché sarebbe stucchevole e passabile di ruffianeria da parte mia.

La nostra libertà di Professionista e di Cittadino è conseguenza di un ben-essere e di una partecipazione alla vita sociale che non sempre ci è possibile esercitare.

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