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Obbligo per i dipendenti pubblici, comunicare di essere soci di un’associazione senza scopo di lucro

di Avvocatura di Diritto Infermieristico

Va comunicato al responsabile della struttura ove lavorano così come prevede il D.P.R. 16 aprile 2013 n. 62.

Regola il codice di comportamento dei dipendenti pubblici previsto dall’articolo 54 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165.

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All’art. 5 titolato: Partecipazione ad associazioni e organizzazioni, stabilisce:

“1. Nel rispetto della disciplina vigente del diritto di associazione, il dipendente comunica tempestivamente al responsabile dell’ufficio di appartenenza la propria adesione o appartenenza ad associazioni od organizzazioni, a prescindere dal loro carattere riservato o meno, i cui ambiti di interessi possano interferire con lo svolgimento dell’attività dell’ufficio. Il presente comma non si applica all’adesione a partiti politici o a sindacati.

2. Il pubblico dipendente non costringe altri dipendenti ad aderire ad associazioni od organizzazioni”

Esaminando l’art. 5, rilevo due importanti elementi costitutivi dell’obbligo di comunicazione:

1. l’interesse conflittuale. La comunicazione dell’adesione associativa al responsabile dell’ufficio non deve essere automatica, ma motivata almeno dal fumus che l’interesse perseguito dall’associazione (rectius: lo scopo sociale) sia conflittuale rispetto a quella perseguita dall’unità produttiva ove il lavoratore presta la propria attività (attenzione alla terminologia legislativa, la norma non prevede il conflitto aziendale ma locale cioè dell’ufficio/reparto/servizio).

In poche parole deve sussistere un incontro di interessi economici, produttivi, immateriali che pongono l’associazione in concorrenza con l’azienda.

L’A.A.D.I., per esempio, non persegue finalità dirette a prevenire, diagnosticare e curare le malattie.

Non produce salute, come le aziende sanitarie. 

L’A.A.D.I. tutela l’infermiere in ogni esplicazione della sua libera personalità sul posto di lavoro ed anche al di fuori del posto di lavoro.

L’A.A.D.I. non interviene utilizzando strategie aziendali sottraendo know-how al datore di lavoro; ma sostiene i diritti della persona secondo le regole del diritto, quale bene comune a tutti i cittadini, nel nome del popolo italiano (così come si pronunciano le sentenze che riconoscono i diritti dei cittadini).

Il rispetto del diritto è una finalità superstatale, che persegue l’intera collettività e che non potrà mai costituire un monopolio sindacale o aziendale. 

L’art. 24 della Costituzione stabilisce che tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi.

L’art. 24 non potrà mai essere prerogativa di un ufficio! 

Per questo motivo quando un’associazione non si pone in contrasto con lo scopo dell’ufficio aziendale, decade il primo requisito che legittima il controllo di merito da parte del datore di lavoro, facendo venir meno l’obbligo di comunicazione dell’adesione da parte dell’infermiere.

2. La deroga sindacale. La deroga sindacale non è stata prevista per agevolare discriminatamente una particolare categoria di lavoratori.

In tal caso i legislatori avrebbero violato l’art. 3 del D.P.R. 07 agosto 1990 n. 241 il cui principio, l’imparzialità, è oggi a fondamento di ogni attività pubblica e privata e ne legittima l’azione.

La deroga sindacale nasce, semplicemente, dal fumus di cui al punto 1 cioè dall’essenza del sindacato cioè dall’essere aggregazione collettiva di interesse comune con finalità non lucrativa.

Difatti non a caso l’art. 5 accomuna ai sindacati i partiti politici che, parimenti, non possono avere scopo di lucro.

Ora, per logica consecutiva, esaminando l’essenza del sindacato o del partito politico, rileviamo che la lacuna legislativa che, ai sensi dell’art. 39 Cost., avrebbe dovuto disciplinare la funzione delle due aggregazioni sociali, riduce il sindacato a mera associazione registrata ma non riconosciuta.

Per questo motivo la legislazione (V. il D.Lgs. n. 165/2001) definisce il sindacato come “associazione sindacale”.

Anche l’A.A.D.I. è un’associazione regolarmente registrata ma non riconosciuta e solo la scelta dei fondatori di non inserire nello Statuto la formula: “di indirizzo sindacale”,  non le ha dato una connotazione in tal senso.

Pertanto basterebbero queste due lapalissiane deduzioni per annoverare l’A.A.D.I. tra le organizzazioni di interesse collettivo non obbligate a comunicare l’adesione dei propri soci.

Ma voglio essere pignolo ed andare oltre ogni esegesi contraria. Non esistono altre normative statali che regolano la partecipazione alle associazioni da parte del dipendente.

Per mero tuziorismo, però, l’Ufficio Legale dell’A.A.D.I., scevro da qualsiasi potenziale contestazione sull’omessa dichiarazione di cui al D.P.R. n. 62/2013, intende analizzare le normative che regolano il doppio lavoro cioè, in via analogica, la disciplina delle attività extralavorative che potrebbero entrare in conflitto con il rapporto pubblico, come potrebbe essere appunto l’adesione all’A.A.D.I.

La valutazione sul punto è però fondata su una reale contestazione avanzata da un’azienda sanitaria di Monza-Brianza che ha eccepito l’omessa comunicazione di una socia.

Ebbene, l’A.A.D.I. per svolgere il proprio ruolo riconosciuto dalla Repubblica Italiana, giusta regolare registrazione presso il Ministero delle Finanze e concessione del codice fiscale, si avvale di un organigramma che prevede la nomina di infermieri soci che svolgono attività di segreteria ovvero proselitismo associativo, vigilanza sul rispetto della normativa italiana inerente la professione infermieristica, redazione di monografie di diritto infermieristico, collaborazione con le istituzioni e con le aziende sanitarie al fine di prevenire abusi e correggere illegalità, organizzazione di corsi di aggiornamento ed E.C.M. di diritto sanitario, partecipazione ad eventi istituzionali in rappresentanza degli infermieri, collaborazioni per attività didattiche e di insegnamento universitario e post-universitario, tutoraggio studenti di infermieristica legale e disciplinare, rappresentanza dei soci nell’azienda di appartenenza e nella provincia, proposte di legge e interrogazioni parlamentari e regionali attinenti le problematiche infermieristiche, supporto tecnico-legale agli avvocati che gestiscono le vertenze dell’A.A.D.I. 

Il D.Lgs. 30.03.2001 n. 165, all’art. 53 (Incompatibilità, cumulo di impieghi e incarichi), dispone:

  • al comma 1, che resta ferma per tutti i dipendenti pubblici la disciplina delle incompatibilità dettata dagli articoli 60 e seguenti del testo unico approvato con D.P.R. 10 gennaio 1957 (che esaminerò in seguito);
  • al comma 5, che in ogni caso, il conferimento operato direttamente dall’amministrazione, nonché l’autorizzazione all’esercizio di incarichi che provengano da amministrazione pubblica diversa da quella di appartenenza, ovvero da società o persone fisiche, che svolgano attività d’impresa o commerciale, sono disposti dai rispettivi organi competenti secondo criteri oggettivi e predeterminati, che tengano conto della specifica professionalità, tali da escludere casi di incompatibilità, sia di diritto che di fatto, nell’interesse del buon andamento della pubblica amministrazione o situazioni di conflitto, anche potenziale, di interessi, che pregiudichino l’esercizio imparziale delle funzioni attribuite al dipendente

Si noti che la norma si applica solo alle amministrazioni pubbliche ovvero a società private che però svolgono attività imprenditoriali o commerciali cioè di lucro per cui l’A.A.D.I. non rientra assolutamente nel novero dei destinatari del presente comma;

  • al comma 7, che i dipendenti pubblici non possono svolgere incarichi retribuiti che non siano stati conferiti o previamente autorizzati dall’amministrazione di appartenenza. Ai fini dell’autorizzazione, l’amministrazione verifica l’insussistenza di situazioni, anche potenziali, di conflitto di interessi.
  • i commi 8 e 9, che le pubbliche amministrazioni non possono conferire incarichi retribuiti a dipendenti di altre amministrazioni pubbliche senza la previa autorizzazione dell’amministrazione di appartenenza dei dipendenti stessi. Salve le più gravi sanzioni, il conferimento dei predetti incarichi, senza la previa autorizzazione, costituisce in ogni caso infrazione disciplinare per il funzionario responsabile del procedimento. Gli enti pubblici economici e i soggetti privati non possono conferire incarichi retribuiti a dipendenti pubblici senza la previa autorizzazione dell’amministrazione di appartenenza dei dipendenti stessi. Ai fini dell’autorizzazione, l’amministrazione verifica l’insussistenza di situazioni, anche potenziali, di conflitto di interessi.

Il comma 12 prevede l’unico caso di incarico a titolo gratuito ma lo vincola solo tra le amministrazioni pubbliche e non per quelle private (così introdotto dall’art. 1, comma 42 della legge n. 190 del 2012).

Come dianzi annunciato, si applica alla fattispecie anche quanto stabilito dal D.P.R. 10 gennaio 1957 n. 3 che così dispone al Titolo V - Capo I - Incompatibilità e cumulo di impieghi:

  • art. 60, l’impiegato non può esercitare il commercio, l’industria, né alcuna professione o assumere impieghi alle dipendenze di privati o accettare cariche in società costituite a fine di lucro, tranne che si tratti di cariche in società o enti per le quali la nomina è riservata allo Stato e sia all’uopo intervenuta l’autorizzazione del Ministro competente.

Valutando l’obbligo di comunicazione di adesione associativa alla stregua dell’incompatibilità sancita dal D.Lgs. n. 165/2001, si palesano quindi due requisiti costitutivi per richiedere alle aziende sanitarie la preventiva autorizzazione per svolgere attività estranea a quella lavorativa e cioè il requisito estrinseco del rapporto di dipendenza ovvero di lavoro subordinato e il requisito intrinseco ovvero il fine di lucro. 

Requisiti inesistenti in un’associazione professionale di categoria fondata statutariamente sulla liberalità dell’apporto economico e sulla volontarietà dell’apporto personale.

Tale principio, infatti, permette alle società cooperative, stante le finalità societarie di mutua partecipazione (simili alle associazioni) di derogare l’art. 60 imprescindibilmente dall’esistenza dei requisiti succitati (art. 61);

  • art. 62, nei casi stabiliti dalla legge o quando ne sia autorizzato con deliberazione del Consiglio dei Ministri, l’impiegato può partecipare all’amministrazione o far parte di collegi sindacali in società o enti ai quali lo Stato partecipi o comunque contribuisca, in quelli che siano concessionari dell’amministrazione di cui l’impiegato fa parte o che siano sottoposti alla vigilanza di questa (articolo non applicabile alle associazioni);
  • art. 63, l’impiegato che contravvenga ai divieti posti dagli artt. 60 e 62 viene diffidato dal Ministro o dal direttore generale competente, a cessare dalla situazione di incompatibilità. La circostanza che l’impiegato abbia obbedito alla diffida non preclude l’eventuale azione disciplinare. Decorsi quindici giorni dalla diffida, senza che l’incompatibilità sia cessata, l’impiegato decade dall’impiego. La decadenza è dichiarata con decreto del Ministro competente, sentito il Consiglio di amministrazione.
  • art. 64, il capo del servizio è tenuto a denunciare al Ministro o all’impiegato da questi delegato i casi di incompatibilità dei quali sia venuto comunque a conoscenza.

Non vogliamo che il potere disciplinare venga abusato per indurre i lavoratori a sottomettersi alla ingiusta volontà datoriale e che si sfrutti il timore di essere licenziati per costringere gli infermieri a tacere situazioni illegali che, invece, devono essere denunciate e represse con forza per imporre il rispetto della dignità umana anche dentro gli ospedali;

  • art. 65, gli impieghi pubblici non sono cumulabili, salvo le eccezioni stabilite da leggi speciali. I capi di ufficio, di istituti o di aziende e stabilimenti pubblici sono tenuti, sotto la loro personale responsabilità, a riferire al Ministro competente, il quale ne dà notizia alla Corte dei conti, i casi di cumulo di impieghi riguardanti il dipendente personale. L’assunzione di altro impiego nei casi in cui la legge non consente il cumulo importa di diritto la cessazione dall’impiego precedente, salva la concessione del trattamento di quiescenza. Anche questa norma non si applica al caso di specie.

Per essere esaustivo in questa mia monografia affinché sia completa, intendo esaminare anche i casi di incompatibilità particolare regolati dal D.P.R. 23 dicembre 1996 n. 662 che all’art. 58 così prevede: la trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale avviene automaticamente entro sessanta giorni dalla domanda, nella quale è indicata l’eventuale attività di lavoro subordinato o autonomo che il dipendente intende svolgere.

L’amministrazione, entro il predetto termine, nega la trasformazione del rapporto nel caso in cui  l’attività lavorativa di lavoro autonomo o subordinato comporti un  conflitto di  interessi con  la specifica attività di servizio svolta dal dipendente ovvero, nel caso in cui la trasformazione comporti, in relazione alle mansioni e alla posizione organizzativa ricoperta dal dipendente, grave pregiudizio alla funzionalità dell’amministrazione stessa, può con provvedimento motivato differire la trasformazione del rapporto di lavoro a tempo parziale per un periodo non superiore a sei mesi.

La trasformazione non può essere comunque  concessa qualora l’attività lavorativa di lavoro subordinato debba intercorrere con un’amministrazione pubblica.

Il dipendente è tenuto, inoltre, a comunicare, entro quindici giorni, all’amministrazione nella quale presta servizio, l’eventuale successivo inizio o la variazione dell’attività lavorativa … (artt. 60 e 61) … è fatto divieto di svolgere qualsiasi  altra attività di lavoro subordinato o autonomo tranne che la legge o altra fonte normativa ne prevedano l’autorizzazione rilasciata dall’amministrazione di appartenenza e l’autorizzazione sia stata concessa.

La richiesta di autorizzazione inoltrata dal dipendente si intende accolta ove entro trenta giorni dalla presentazione non venga adottato un motivato provvedimento di diniego.

La violazione del divieto di cui al comma 60, la mancata comunicazione di cui al comma 58, nonchè le comunicazioni risultate non veritiere anche a seguito di accertamenti ispettivi dell’amministrazione costituiscono giusta causa di recesso per i rapporti di lavoro disciplinati dai contratti collettivi nazionali di lavoro e costituiscono causa di decadenza dall’impiego per il restante personale, sempreché le  prestazioni per le attività di lavoro subordinato o autonomo svolte al di fuori del rapporto di impiego con l’amministrazione di appartenenza non siano rese a titolo gratuito, presso associazioni di volontariato o cooperative a carattere  socio-assistenziale senza scopo di lucro. Le procedure per l’accertamento delle cause di recesso o di decadenza devono svolgersi in contradditorio fra le parti.

Anche in questo caso la normativa è chiara: l’incompatibilità può esistere anche per il tipo di rapporti di lavoro pubblico cioè in full-time e in part-time ma solo presso associazioni di volontariato o cooperative ad esclusivo titolo oneroso; in poche parole la regola permanente prevede che per qualsiasi prestazione gratuita, l’amministrazione datoriale non avrebbe alcuna potestà.

In conclusione, la comunicazione dell’adesione associativa che riguarda organizzazioni che non prevedono dividendi non deve essere resa.

Questa nuova esegesi permette di eliminare la seconda pagina del modulo di iscrizione all’A.A.D.I. cioè l’allegata comunicazione.

Prof. Mauro Di Fresco 

Presidente

Associazione Avvocatura di Diritto Infermieristico

 

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