Un percorso per aumentare la consapevolezza e la conoscenza della trasformazione che avviene per chi, partendo spesso da una professione clinica, viene chiamato a svolgere una funzione manageriale come coordinatore, dirigente, responsabile o direttore. Questo è “10 brevi lezioni per manager in sanità ” (FrancoAngeli editore) di Annalisa Pennini, PhD in Scienze Infermieristiche e Sanità Pubblica – Università degli Studi di Roma Tor Vergata.
Annalisa Pennini presenta 10 brevi lezioni per manager in Sanità
Annalisa Pennini con il suo libro "10 brevi lezioni per manager in sanità"
Senza dubbio nel contesto assistenziale attuale, fortemente lacerato e condizionato da Covid-19, essere manager rappresenta una mission alquanto faticosa e complessa. Non a caso durante la prefazione del libro “10 brevi lezioni per manager in sanità ”, Monica Otto e Andrea Rotolo (SDA Bocconi School of Management), affermano che l’obiettivo di un manager del settore non dovrebbe essere quello di governare la complessità, ma di saper governare nella complessità.
Annalisa, ritiene che la vision dei manager attuali possa essere in linea con l’affermazione sopra scritta?
Ritengo che all’interno della comunità professionale dei “manager in sanità” vi sia un mondo variegato e alquanto complesso che include anche il settore socio-sanitario. Di conseguenza anche le vision di questi professionisti possono essere differenti, in ragione della cultura, della formazione ricevuta in ambito manageriale, delle motivazioni e dei talenti personali e delle esperienze.
Prevalentemente, credo che i manager stiano lavorando in questa direzione, ovvero quella di imparare a gestire nella complessità . Il nostro mondo pre-Covid era già complesso e di conseguenza lo erano le organizzazioni, fra cui quelle sanitarie e socio-sanitarie. Ora, la pandemia ha esposto questi sistemi a una ipercomplessità .
I sistemi organizzativi hanno dimostrato di saper far fronte, pur con mille difficoltà, a una situazione così straordinaria. Di conseguenza, ciò significa che anche i manager a capo di queste organizzazioni hanno dovuto ripensarsi e mettere in atto un processo di accettazione riguardo la complessità che stanno affrontando. Sicuramente è una sfida ancora vivere, che nel prossimo futuro vedrà una possibilità di concretizzazione. È una direzione verso cui tendere.
L’organizzazione del libro parte dall’essere (un manager in sanità), per passare a stare (nell’organizzazione) e infine per giungere a sviluppare (sé stessi e l’organizzazione). A mio modesto avviso però la componente relativa allo sviluppo di sé stessi in particolare dovrebbe trovarsi al primo posto. Come mai la considera come il punto di arrivo dell’essere manager?
Nel mio ragionamento lo sviluppo sta in fondo al libro per chiudere un discorso, per lasciare al lettore una prospettiva di evoluzione, di futuro. La logica che ho seguito è di fatto un partire da sé stessi, per andare nell’organizzazione e poi per tornare a sé stessi. È un cerchio che si chiude .
Il manager inizia la sua carriera, dovendosi ripensare, interpretando un nuovo ruolo, che non è più quello del clinico, per cui ha bisogno di riflettere sulla sua identità, sull’”essere”. Per questo l’ho messo all’inizio. Poi vive all’interno di un’organizzazione e deve imparare un modo di “stare”.
Per fare tutto questo dovrà continuare a sviluppare e a svilupparsi, non può percepirsi “arrivato” una volta che ha definito la propria identità e ha creato un patto con la propria organizzazione. È proprio lì che inizia la sfida per il futuro.
Ho fatto questa domanda poiché ritengo che il ruolo di manager sia molto di più di un percorso di laurea magistrale e/o master e forse per rispondere a questa mia domanda lei parla di tre tipologie di manager: può descriverci questi tre tipi di approcci manageriali e può dirci se è più facile adattare una tipologia al singolo manager ovvero se è il manager che deve adattarsi ad uno dei tre tipi?
Esatto, anch’io credo che il diventare manager non sia solo adempiere agli obblighi di un percorso formativo, per quanto di buon livello. Si tratta di un percorso continuo di formazione, riflessione, crescita. Infatti, ho cercato, proprio descrivendo le tre tipologie di manager, di disegnare un percorso di sviluppo, in tre step.
Li ho chiamati idealtipi manageriali , delineandone tre versioni: 1.0, 2.0, 3.0. Si tratta di tre tipologie di manager che raccolgono delle caratteristiche comuni, secondo riferimenti storici e culturali. Nella realtà i tre modelli non si presentano “puri”, ma spesso sono mescolati e coesistenti, in una certa misura in molti professionisti.
La versione 1.0 del manager in sanità è legato a una organizzazione burocratica e gerarchica, con al centro il rispetto delle regole. La collocazione storica è quella degli anni ’70 e ’80 del secolo scorso, dove le figure del “primario” e del “caposala” ricoprivano i ruoli gestionali con un’enfasi al controllo sui compiti dei collaboratori.
La versione 2.0 invece si colloca attorno agli anni ’90 del secolo scorso all’interno dell’evoluzione aziendalistica delle organizzazioni sanitarie. Il manager di questa tipologia si caratterizza perlopiù per la distanza dai contesti clinici, per andarsi ad occupare di gestione di risorse secondo logiche di efficienza.
Infine, la versione 3.0 è quello che vorrei vedere nel presente e futuro delle nostre organizzazioni sanitarie. Si tratta di un manager contemporaneo, che persegue due orientamenti: all’outcome del servizio e alla gestione del team come leader e coach. Nel primo orientamento si pone come “garante” della qualità del servizio che la sua unità organizzativa assicura alla persona assistita. Nel concetto di qualità vi sono inclusi: efficacia, appropriatezza, sicurezza, equità, eticità, sostenibilità e non solo efficienza.
Il manager che promuove questo orientamento, ogni giorno lo trasmette attraverso la visione e la mette in atto mentre gestisce risorse e processi. Il secondo orientamento, lo vede come leader e coach impegnato nella costruzione e mantenimento di un team di lavoro composto da professionisti autonomi o potenzialmente autonomi.
I due orientamenti sono collegati, perché un buon team, ben guidato, può consentire di raggiungere più facilmente i risultati di qualità di cui parlavo sopra. Nella versione 3.0 di manager, le due precedenti non scompaiono, ma vengono ricomprese e riviste, assumendo un ruolo di “mezzo” e non di “fine”. Ad esempio: il rispetto delle regole (1.0) o l’attenzione all’efficienza (2.0) non costituiscono più delle identità manageriali, ma degli strumenti da usare insieme ad altri. Credo che la versione 3.0 del manager contemporaneo sia quella da perseguire e coltivare per le sfide del prossimo futuro.
Secondo lei è necessario che il manager ogni tanto torni a fare il clinico?
Nel libro ho citato tre situazioni che dovrebbero indurre un manager a svolgere direttamente delle attività, cioè occuparsi di clinica. Si tratta di: urgenza, necessità, strategia. L’urgenza può essere collegata all’esigenza di risolvere un problema che compromette la sicurezza dell’organizzazione. La necessità può essere ad esempio quella di sostituire un collaboratore in caso di assenza improvvisa.
La strategia può essere legata all’opportunità e utilità di essere vicini al lavoro clinico al fine di monitorarne gli standard oppure per mantenere aggiornate alcune conoscenze o manifestare la propria vicinanza al team.
Al di fuori di queste motivazioni, non credo sia opportuno che il manager si occupi di clinica, perché probabilmente rischierebbe di rientrare in una propria “zona di comfort” rappresentata dal “fare” e quindi perdere di vista il “gestire”. Comunque, in sintesi, sì, ci sono queste tre situazioni che ritengo siano delle possibilità per il manager di riavvicinarsi alla clinica e di trarre il meglio da queste esperienze per proseguire la propria attività manageriale con maggiore consapevolezza.
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