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Un giallo importante per chi cura e per chi viene curato

di Giordano Cotichelli

Claudia Piñeiro torna sugli scaffali italiani con un nuovo romanzo giallo: “Elena lo sa”. Il lavoro in realtà è del 2007, ma ha la capacità di conservare tutta la sua freschezza narrativa, caricandosi di una quotidianità vissuta che prende sottobraccio il lettore e lo trascina a forza lungo la trama carica di tensione e rabbia. Al centro del racconto ci sono le tre protagoniste: Elena, una signora di 63 anni che ha perso la figlia Rita, l’altra protagonista, scomparsa tragicamente, ed infine Lei, la malattia di Parkinson di cui Elena soffre e che ha ribattezzato con l’epiteto di “puttana malattia infame”.

Elena lo sa, di Claudia Piñeiro

Elena vuole scoprire come e perché è morta la figlia. È una decisione che per lei significa non arrendersi alla perdita che l’ha colpita, ma soprattutto non arrendersi a Lei, la malattia che condiziona ogni istante della sua giornata: muovere il piede destro, fare un semplice passo, infilarsi la manica della giacca, guardare in alto, cercare di trattenere la bava che le cola fuori dalla bocca. È un’impresa anche semplicemente deglutire la preziosa compressa di levodopa che le permette di controllare meglio il Parkinson.

La sua giornata è diventata ormai uno schema posologico di ciò che può o non può fare a seconda dei livelli ematici di levodopa che minacciano, nei momenti più bassi, di lasciarla inerte in mezzo alla via, o sui sedili di un treno, o nel nulla pulsante di una stazione periferica di Buenos Aires. Ed è proprio nella Capital Federal dell’Argentina che Elena cercherà una risposta alla morte inspiegabile della figlia.

Il romanzo si dispiega così, stretto fra la tensione del giallo e la descrizione sofferta della lotta contro la disabilità provocata dal Morbo di Parkinson. Elena lo sa cosa vuole. Giustizia in primo luogo, per sé e per la figlia. Elena sa che non sarà facile, specie in un paese dove troppe morti ancora reclamano da tempo giustizia. Elena sa che ha bisogno di ritrovare sé stessa, donna sfiorita dall’età e maltrattata dalla patologia ed è per questo che si ribella contro il fato che le ha portato via la figlia, contro la malattia che le ha portato via il suo corpo, contro la stessa società che le ha fatto vivere una vita di precetti e regole che ora, si accorge, appaiono tanto vacui quanto stupidi e cattivi di fronte a Lei.

Ha senso, nel suo stato, dentro un corpo rattrappito, andare dalla parrucchiera? Si chiede. E poi: Un malato di Parkinson può fare sesso? Oppure può avere un gatto che gli faccia compagnia? E come fai a prenderti cura di lui se il farlo per te stessa è una continua lotta? Ora dopo ora, farmaco dopo farmaco. Elena non è incattivita. Arrabbiata sì, stanca sicuramente, ma è risoluta a far valere le sue ragioni come donna più che come madre, come persona e non come paziente.

Elena si chiede più volte, cercando di resistere alla sofferenza per la morte di Rita, come possa definirsi un genitore quando perde un figlio. Se si perde un genitore si diventa orfani. Quando si perde il coniuge si diventa vedove, ma un figlio? Cosa si diventa quando si perde una figlia? Il romanzo è del 2007, ma si dispiega anche all’interno di una vita familiare vissuta in un arco di tempo di più di vent'anni, costringendo il lettore ad andare indietro nel tempo.

Sembra quasi riverberare l’attualità di un paese fatto da madri che rifiutano la perdita dei loro figli. Madri che hanno indossato un giorno un fazzoletto bianco in testa ed hanno chiesto giustizia. Claudia Piñeiro non accenna mai al paese della dittatura militare, ma chi si avvicina alle pagine della scrittrice, con un minimo di Argentina in testa – e nel cuore -, sa che viene detto molto di più di quanto non venga scritto.

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