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Lecto | La storia nascosta, gli infermieri si raccontano

di Rosario Scotto di Vetta

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MILANO. In occasione dei suoi 50 anni di vita, il Comitato centrale della Federazione Nazionale dei Collegi IPASVI ha pubblicato un testo che voleva racchiudere la storia nascosta degli infermieri. Il libro, dal titolo ”La storia nascosta. Gli infermieri si raccontato” è preceduto da una prima parte introduttiva (1954-2004: diario di una professione) e seguito da una serie di interventi (Riflessioni del Comitato centrale IPASVI sulle sfide del futuro). 

Il volume raccoglie 26 brevi testimonianze di infermieri italiani di diverse generazioni con le più varie esperienze operative-gestionali e responsabilità istituzionali alle spalle. I materiali sono collocati, preceduti ogni volta da una brevissima presentazione, dentro le seguenti aree: I perché di una scelta, Le leve del cambiamento culturale, Investire sulle nuove generazioni, Storie di straordinaria quotidianità, Il buon "governo" dell'assistenza. Sono stati raccolti da dieci intervistatori, per la maggior parte colleghi impegnati in ambito didattico-formativo. Pur senza sistematicità e completezza la lettura delle testimonianze dà un'idea assai precisa, in ogni modo viva e concreta, ricca di emozioni, delle infinite facce, dei tanti aspetti e problemi, della professione infermieristica dagli anni del secondo dopoguerra ad oggi.

Tra le tante storie professionali è stata selezionata quella di Antonietta Santullo. La sua storia inizia cosi: “Da bambina alla domanda “Cosa vuoi far da grande?” avrei risposto: “Non entrerò mai nel mondo sanitario”. Due importanti lutti avevano segnato la mia infanzia e l’idea di avvicinarmi alla sofferenza e a tutto ciò che vi era connesso, mi spaventava. In realtà, le cose sono andate diversamente. Mi sono ritrovata ad una selezione per un corso da infermiera professionale nella città dove vivevo, Torre del Greco, quasi per caso, perché avevo accompagnato e sostenuto una mia cugina durante le prove. In quell’occasione, mia cugina non superò la selezione, mentre io, superandola mi ritrovai davanti ad un bivio. La mia mamma, impegnata nel volontariato e nell’aiutare persone in difficoltà, e mio zio, tra l’altro vecchio infermiere generico in pensione, mi aiutarono a vedere il positivo della strada che mi si era aperta di fronte.”

 

Ricorda gli anni di formazione come una scelta consapevole: “Gli anni in cui frequenta il corso per infermiere, e quella che ne definisce la parte “goliardica”, sono positivi. Ne ricorda con piacere il clima che si respirava, la direzione e il corpo docente della scuola, ma anche per le persone incontrate.  Lego a quegli anni i primi momenti di scelta consapevole del mio futuro rispetto ai precedenti motivi dettati soprattutto dalla necessità di compensazione economica per procedere negli studi. Sono stati momenti importanti, non soltanto per l’acquisizione delle conoscenze professionali, ma anche perché ho cominciato ad individuare e raccogliere quelli che sarebbero stati gli interessi prevalenti della mia vita professionale: l’organizzazione e la formazione.”

 

Nel 1987, subito dopo il diploma, presentò una domanda di concorso presso il presidio ospedaliero di Riccione, perché lì viveva sua zia, sposata con un riccionese. Continuando si legge:“Quando mi comunicarono la notizia della vincita del concorso, mi domandai: “Cosa faccio?”. Partii, quindi per Riccione, con l’idea di un’esperienza in terra straniera, “a termine”. Quando, indipendentemente dal luogo e dalle distanze, si entra a far parte di una realtà dove non si è frequentata la scuola e dove non si conosce nessuno, ci si sente stranieri. Non si appartiene più al mondo che abbiamo lasciato alle spalle, ma neanche alla nuova realtà che ci accoglie. Oggi so che tra la paura di lasciare il noto ed affrontare l’ignoto, quella volta scelsi il nuovo che pur con le sue incertezze può celare opportunità.

Della sua prima esperienza da infermiera ricorda ancora il nome e cognome della persona che si ritrovò ad assistere il primo pomeriggio di lavoro nell’Unità operativa di Medicina che morì la mattina seguente, un ragazzo di 38 anni malato di tumore al polmone. Ricorda le sue esperienze lavorative e la sua carriera: “Penso alla mia esperienza di direzione di un servizio, dal 2000 ad oggi. Sicuramente tra le esperienze maggiormente innovative annovero la costituzione di due unità operative con direzione infermieristica. Oggi ci sono, pertanto, due gruppi infermieristici che da oltre tre anni stanno dimostrando che gli infermieri e degli eccellenti coordinatori possono condurre delle unità operative, nel rispetto dei principi di autonomia ed integrazione delle diverse professionalità e linee di responsabilità. Credo, inoltre, che queste esperienze siano utili al sistema pubblico che sarà in futuro sostenibile solo nella misura in cui saremo capaci di realizzare innovazioni anche nell’ organizzazione e gestione dei servizi ( minoro costo, medesimo beneficio).  Potrei citarne altre, dall’avvio del processo di responsabilizzazione della maggioranza dei coordinatori con la rideterminazione delle mappe di responsabilità e degli spazi d’azione, alla creazione della comunità degli infermieri esperti nella ricerca di evidenze, alle forme di coinvolgimento dei cittadini nell’assistenza, alla creazione  dell’osservatorio professionale sui disagi lavorativi, alla sperimentazione da alcuni anni di una unità operativa  con le 35 ore, ecc. Tutte esperienze realizzate  per la presenza di preziosi collaboratori e colleghi.  Io ho un contratto e sono dirigente in struttura soltanto dal 2003, ma dal 2000 al 2003 ho dato l’anima per metterla in piedi. Per “struttura” intendo dire la direzione infermieristica, perché prima di me non c’era.  Sono partita da zero.”

Testimone assoluta dell’evoluzione professionale, afferma che quest’ultima si costruisce solo con solide basi di sapere: “Ci sono infermieri che cominciano a confrontarsi con i medici attraverso una terminologia precisa, con modalità e linguaggio tecnico. Una professione, del resto, è fatta anche di linguaggio tecnico specialistico, non solo di valori e di norme. La competenza distintiva di una professione si esprime anche con il possesso di un linguaggio specifico: si tratta di una componente significativa nel processo evolutivo in atto.  Il punto critico dell’area organizzativa non è rappresentato soltanto dal predominio culturale medico, ma dalla scarsa consapevolezza ed orgoglio della propria professione che hanno gli infermieri in possesso di competenze. Certo, dobbiamo avere onestà intellettuale di dichiarare che vi sono anche molti colleghi che non li possiedono, ma ciò è presente anche in altri gruppi professionali, c’è il medico competente e quello incompetente, il fisioterapista competente e quello incompetente, il caposala e il dirigente competente e quelli incompetenti ecc.  L’obiettivo di coloro che sono competenti, nella clinica come nell’organizzazione, è esserne orgogliosi e coraggiosi nell’ affermarlo, sostenerlo e consolidarlo nell’esercizio professionale quotidiano. Talvolta i colleghi hanno ancora paura di rendere visibile la propria competenza, laddove c’è consapevolezza c’è talvolta un’insicurezza e una paura che l’affermazione delle proprie posizioni possa generare conflitti. L’integrazione dei saperi per la presa in carico “partecipativa” è il campo dove, a mio avviso, c’è più da lavorare.  Nei prossimi anni dovremo agire e lavorare – lo penso per il mio ruolo nell’organizzazione – per rendere il più possibile concreto, misurabile e visibile il contributo dei colleghi infermieri, anche attraverso differenziazioni di ruoli e di remunerazione economica. Quando faccio riferimento alla necessità di avere una modalità di misura, intendo riferirmi alla misura della crescita di un gruppo. Dire: “Io in quest’azienda ho quattro realtà che sono punti di eccellenza” significa anche affermare che ce ne sono altre cinquantaquattro che non lo sono. Per me, il vero punto di crescita non è vedere solo la punta di un iceberg ma la globalità della situazione, perché l’eccellenza è la punta di un iceberg. Dobbiamo operare per creare la massa critica che acquisisca la consapevolezza del valore del proprio operato, attraverso gesti assistenziali ed organizzativi, in alleanza con i beneficiari delle cure e delle altre professioni. Da soli non si  raggiunge nessuna meta.”

Ci racconta i suoi sogni ma soprattutto di un futuro per noi infermieri senza confini: “Ci sono tante strade da percorrere e tanti spazi da occupare: dall’organizzazione, alla formazione, alla clinica, alla ricerca ecc. Quante altre professioni oggi possono trovare tali e tanti sbocchi? Pochissime. Certo, d’altro canto, abbiamo tanti altri importanti passaggi da fare. Le situazioni critiche, condizioni di lavoro, carenze d’organico,  ecc.., sono presenti un po’ in tutte le realtà, la labilità dei confini dei ruoli, operatori di supporto e infermieri, infermieri e coordinatori e/o caposala, infermieri con master e quelli senza, ecc,,  sarà un altro nodo critico, questo non deve spaventare perché fa parte delle regole di un gioco di cambiamento. L’importante è avere la consapevolezza della meta che si vuole raggiungere, consolidando l’esistente. Altrimenti, si rischia di perdere anche quello che di positivo si è conquistato.  In proposito, a mete personali, ho due sogni nel cassetto. Il primo sicuramente si lega ad un’opportunità che, tra l’altro, qualche anno fa ho avuta, ma a cui ho rinunciato per motivi che ritengo importanti: il lavoro e una bellissima famiglia, alla quale non mi sono sentita di chiedere ulteriori sacrifici, essendo una persona che già lavora mediamente dodici ore il giorno. tra ufficio e casa.  Il mio primo sogno nel cassetto, quindi, è quello di poter fare, in futuro, un’esperienza lavorativa presso un’organizzazione internazionale, perché credo sia un luogo dove si possano cogliere ulteriori prospettive legate al nostro ambito professionale.  Il secondo sogno nel cassetto è di allacciare all’interno della mia Azienda rapporti con colleghi di altre Aziende e Università sia italiane sia straniere. L’obiettivo sarebbe quello di creare le “comunità di pratica”, come momenti di apprendimento e socializzazione “scientifica” strutturata ed aperta a coloro per i quali esistiamo, ovvero i beneficiari delle nostre cure. Secondo me, è importante riconoscere il valore delle esperienze altrui, tesaurizzandole e rendendole visibili, numerosi colleghi, rappresentano un patrimonio di saperi che tanto spesso non hanno opportunità di condividerlo e vederselo riconosciuto.  Si  può contribuire a creare  le migliori condizioni organizzative ed assistenziali, anche, attraverso il raffronto con altre realtà e colleghi, dal quale tutti possiamo avere la possibilità di valorizzarci cogliendo il positivo dell’esistente, e l’umiltà di riconoscere ciò che deve essere migliorato. Credo che il consolidamento di ciò che di buono esiste, poco o molto, sia importante nella costruzione, mantenimento e miglioramento di un “mandato” di servizio e di un sistema organizzativo con dei principi e valori.”

Un libro ricco di storie per rivivere insieme più di 50 anni di storia dei nostri colleghi che tanto ci stanno a cuore.

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