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Le inidoneità e le limitazioni lavorative del personale Ssn. Dimensioni del fenomeno e proposte

di Redazione

infermiere consulente

L’11,8% degli organici di Asl e ospedali presenta inidoneità fisiche che ne limitano la mansione svolta e di questi il 7,8% presenta inidoneità parziali permanenti. Lo 0,4% raggiunge invece un’inidoneità totale. Le più colpite sono le donne: 79,6% contro il 20,4% degli uomini. E le inidoneità aumentano con l’età: meno del 4% tra 25 e 29 anni, 24% medio, ma con picchi fino al 31% tra 60 e 64 anni.

ROMA. Inserito sul portale della Federazione Nazionale dei Collegi IPASVI la pubblicazione della sintesi e dei relativi documenti e proposte della Ricerca Cergas Bocconi presentata questa mattina a Milano su "Le inidoneità e le limitazioni lavorative del personale Ssn. Dimensioni del fenomeno e proposte".

L’11,8% degli organici di Asl e ospedali presenta inidoneità fisiche che ne limitano la mansione svolta e di questi il 7,8% presenta inidoneità parziali permanenti. Lo 0,4% raggiunge invece un’inidoneità totale. Le più colpite sono le donne: 79,6% contro il 20,4% degli uomini. E le inidoneità aumentano con l’età: meno del 4% tra 25 e 29 anni, 24% medio, ma con picchi fino al 31% tra 60 e 64 anni. 

La prima analisi sulle limitazioni alla mansione tra gli operatori della Sanità è del Cergas Bocconi, che ha analizzato nell'indagine "Le inidoneità e le limitazioni lavorative del personale Ssn. Dimensioni del fenomeno e proposte" un campione di aziende a livello nazionale e attraverso una metodologia progettata insieme agli attori-chiave del fenomeno (datori di lavoro, organizzazioni sindacali, medici competenti). Il campione analizzato comprende una griglia di rilevazione compilata da 49 Aziende sanitarie pubbliche, compilata grazie ai partner Bocconi: Anma (Associazione Nazionale Medici d’Azienda), Fiaso (Federazione Italiana Aziende Sanitarie e Ospedaliere), Ipasvi, Simlii (Società Italiana di Medicina del Lavoro e Igiene Industriale) ed è finanziato grazie al generoso supporto di Ausl della Valle d'Aosta, Cisl, Nursind, Regione Basilicata, Regione Umbria e Regione Veneto. L’indagine è partita  nel 2014 e ha concluso la prima fase della sua attività a dicembre 2015.

 

E dalla ricerca sono arrivate risposte a questioni rilevanti per il management e la politica sanitaria:


  • la quota di lavoratori alle quali è stata riconosciuta una inidoneità o una idoneità parziale lavorativa;

  • la distribuzione per tipologia delle limitazioni lavorative (esenzione dai turni notturni, limiti alla possibile movimentazione manuale dei carichi, ecc.);

  • le figure più "colpite" e su quali tipologie di limitazioni lavorative;

  • quanto è forte la correlazione tra invecchiamento degli organici e presenza di limitazioni;

  • le differenze tra le aziende di diverse Regioni.


Quando si parla di inidoneità, spiega la ricerca, ci si riferisce nel 49,5% dei casi a quelle relative alla movimentazione dei carichi, nel 12,6% alle posture e nel 12% al lavoro notturno e alla reperibilità (ma ci sono anche “altre” inidoneità che rappresentano l’11% del totale e si riferiscono all’esposizione ai videoterminali, al rischio biologico, al contatto con i pazienti, all’impossibilità di operare in specifici reparti o svolgere particolari azioni ecc.).

 

Per quanto riguarda il ruolo svolto dagli operatori inidonei, la ricerca indica che la categoria più colpita è quella del personale di ruolo sanitario o tecnico di area sanitaria con mansioni operative e/o di tipo socio-assistenziale (ad esempio Operatori socio-sanitari – Oss, Operatori tecnici dell’assistenza – Ota, ausiliari specializzati): il 24,1% presenta una o più limitazioni. Segue la prevalenza delle limitazioni in chi svolge professioni sanitarie infermieristiche e ostetriche (categorie D o Ds) col 15,1% dei casi, o nel personale di ruolo tecnico delle categorie C, Bs o B (ad esempio assistenti o operatori tecnici; 13,4%). Solo il 4,8% dei dirigenti di ruolo sanitario, professionale, tecnico e amministrativo è invece totalmente o parzialmente inidoneo, mentre i meno colpiti dalle limitazioni sono i collaboratori professionali, tecnici o amministrativi e gli assistenti religiosi (personale ruolo professionale, tecnico o amministrativo nelle categorie D o Ds; 0,7%).

 

Non sorprende – commenta il Cergas Bocconi - come coloro che svolgono mansioni fisicamente usuranti, incentrate per esempio sull’assistenza diretta al paziente (personale sanitario delle categorie D o Ds o personale di ruolo sanitario o tecnico delle categorie delle categorie C, B, Bs, A), presentino una quota elevata di limitazioni relative alla mobilitazione dei carichi. Interessante è notare che le limitazioni relative al lavoro notturno e alla reperibilità si manifestano maggiormente in coloro che svolgono un ruolo dirigenziale o facenti parte delle categorie D/Ds, come accade per i turni non notturni e per le limitazioni connesse a stress, burn out e problematiche psichiatriche; per quest’ultima tassonomia evidenti eccezioni vengono costituite dal personale con ruolo professionale, tecnico o amministrativo nelle categorie D o Ds e il personale con ruolo amministrativo nelle categorie A/B/Bs/C”.

 

La ricerca analizza anche l’ambito lavorativo in cui il dipendente operava al momento del primo giudizio di inidoneità e l’ambito lavorativo in cui era impiegato al 31 dicembre 2014. Per la maggioranza dei dipendenti l’Azienda ha trovato una modalità di gestione della limitazione che non ha reso necessario un trasferimento tra le diverse macroaree aziendali. E’ stato possibile cioè trovare soluzioni all’interno dello stesso reparto (ad esempio dotazione di ausili, compresenza di un secondo operatore a supporto, modifica del piano di attività individuali) o il dipendente è stato trasferito ad ambiti lavorativi con rischi inferiori all’interno della stessa area (ad esempio reparti di degenza che non richiedono la movimentazione dei pazienti o i turni notturni). Una quota di dipendenti si è invece spostata da un’area all’altra nel corso del tempo. La riduzione maggiore si ha nel caso del 118 (il 60% dei dipendenti con limitazioni è stato trasferito), seguito dall’area ospedaliera di degenza (- 28,6%), mentre aumentano consistentemente le persone impiegate nei servizi o nelle attività territoriali (+22,7% e +36,6%). Particolarmente rilevante in termini assoluti è il caso di coloro che vengono trasferiti dall’ambito “Ospedale degenza” ad altri ambiti. 

 

L’ambito della ricerca – commenta Barbara Mangiacavalli, presidente della Federazione Ipasvi - è, in assoluto, uno degli argomenti maggiormente presenti nelle discussioni e nelle analisi delle direzioni assistenziali; l’attuale contesto economico ed istituzionale ci “consegna” alcune caratteristiche rilevanti del personale assistenziale in servizio nel ssn: l’età media degli infermieri cresce di 6 mesi/anno, e oggi è attestata sui 49 anni, il mancato reintegro dei giovani ed il prolungamento dei termini per l’uscita dal servizio hanno fatto si che oggi è un fenomeno “normale” avere negli organici professionisti con età più elevate rispetto al passato. L’elemento che però fatica ad entrare nelle agende di chi si occupa di organizzazione, è la necessità di pensare approcci manageriali/organizzativi innovativi quali il diversity management piuttosto che l’adozione di programmi strutturati di formazione del personale e prevenzione del fenomeno”.

 

Grazie ai risultati della ricerca, Cergas Bocconi individua poi alcune misure utili per migliorare la gestione il fenomeno delle inidoneità e delle limitazioni lavorative. “Se il punto di partenza resta l’obiettivo di tutelare la qualità dell’assistenza e la salute dei lavoratori – si legge - queste misure potrebbero contribuire a ridurre le ampie differenze non spiegate di tale gestione da un’azienda all’altra e a tutelare la funzionalità delle aziende e dunque del sistema sanitario pubblico”.

 

Gli interventi proposti sono organizzati in quattro sezioni:


  1. Introdurre sistemi di rilevazione di informazioni codificate e fruibili (le informazioni della sorveglianza sanitaria e delle altre azioni dovrebbero essere raccolte su sistemi informatici che ne assicurino una raccolta longitudinale nel corso del tempo e ne permettano la fruizione da parte dei vari attori dell’azienda e l’integrazione con i database dell’ufficio del personale, del  Servizio di prevenzione e protezione (SPP), ecc. Preventivamente allo sviluppo di tali software sarebbe utile definire caratteristiche tecniche di interoperabilità, così da permettere l’estrazione di dati aggregati che rendano possibili confronti interaziendali)

  2. Sviluppare le competenze attraverso communities of practice (coordinamenti o tavoli definiti a livello metropolitano o regionale tra i medici competenti (MC), ma anche tra responsabili del servizio di prevenzione e protezione (RSPP), costituiscono le basi per uno sviluppo di “communities of practice” che garantiscano lo scambio di esperienze, la discussione di casi complessi, la condivisione di sistemi e strumenti professionali come protocolli, ricorso alle consulenze, classificazione reparti, uso del DVR; la verifica delle differenze nelle dotazioni del servizio, l’allineamento professionale. Iniziative di questo tipo sono presenti a macchia di leopardo o operano con poca continuità: andrebbero invece sviluppate in maniera sistematica e supportate da un adeguato riconoscimento da parte delle aziende e delle Regioni)

  3. Rinnovare e rafforzare il ruolo dell’azienda nella gestione delle limitazioni (con lo sviluppo di reti di specialisti di riferimento sulle patologie occupazionali ad alta incidenza, protocolli e altri strumenti operativi per la gestione della sorveglianza sanitaria, il coinvolgimento del MC nella gestione delle limitazioni; sistemi aziendali di supporto psicologico per la gestione dello stress o del disagio organizzativo. E coinvolgendo di più i rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza nei sopralluoghi sui posti di lavoro, definendo politiche e regole di gestione del personale che si basino esplicitamente sulla gestione dell’età e bandi di concorso che permettano di reclutare le figure di cui realmente c’è bisogno in azienda e garantendo dotazioni di medici competenti e di personale di supporto adeguate) 

  4. Rivedere le relazioni interistituzionali e le regole di sistema (chiarendo le competenze distintive delle diverse commissioni medico-legali previste dalla normativa, allineando i criteri di giudizi di MC e organo di vigilanza, introducendo soluzioni – anche con il contratto – per ricorrere con maggior facilità al cambio di qualifica, riducendo i possibili comportamenti di medicina difensiva da parte dei MC)


La prima linea di azione che la Federazione intende percorrere – ha detto alla presentazione della ricerca Franco Vallicella, componente del Comitato centrale Ipasvi di cui è tesoriere - è farsi promotrice di nuovi modelli organizzativi che siano legati da un lato alle esigenze dei pazienti, sempre di più anziani e malati cronici appunto e dall’altro alle esigenze dei professionisti. I due cardini su cui agire sono il disease  e il diversity management e le politiche di conciliazione tempi lavoro-famiglia. Per il primo – ha proseguito -  è necessaria una formazione specifica che preveda la riprogettazione dei servizi e dei percorsi degli utenti, che partono e finiscono nel territorio, con modelli capaci di garantire la presa in carico di lungo periodo  di pazienti con patologie croniche a rischio di evoluzione negativa per la loro malattia e accanto a questi l’eterogeneità del personale, cultura e valori organizzativi, strategia organizzativa, interesse da parte dei vertici e del management. Per il secondo – conclude Vallicella - sono necessarie maggiori tutele per le lavoratrici autonome o parasubordinate e per i genitori affidatari o adottivi e, per quanto riguarda l’organizzazione aziendale, sarebbero necessari incentivi, normativi e contributivi, per chi adotta soluzioni innovative per conciliare i tempi di vita e lavoro dei propri dipendenti”.

Per saperne di più: www.ipasvi.it

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