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Infermiere pediatrico

Carmine: "importante far valere la specificità dell'infermieristica pediatrica"

di Marco Alaimo

Essere un infermiere pediatrico significa “resistere” per mantenere una specializzazione e una peculiarità frutto di anni di lotte a livello legislativo per creare una figura importante e fondamentale nell’ambito assistenziale.

Carmine Creazzo

Intervista a Carmine Creazzo Infermiere Pediatrico 

Per capire meglio e approfondire l’argomento abbiamo intervistato Carmine Creazzo Infermiere Pediatrico Laureato presso l’Università di Torino. Attualmente lavora in medicina d’urgenza all’ospedale pediatrico di Torino. 

Autore del libro “Pediatric Nurse and territory: prospects and potentials” edito da Lambert accademic publishing - UK - un lavoro di ricerca qualitativa sulle prospettive e il potenziale dell’Infermieristica pediatrica in ambito territoriale.

Cosa significa oggi essere un Infermiere Pediatrico? Quali le peculiarità?

Domanda importante. Oggi, a mio avviso, essere un infermiere pediatrico significa “resistere” per mantenere una specializzazione e una peculiarità che è frutto di anni di lotte a livello legislativo per creare una figura importante e fondamentale nell’ambito assistenziale. Dico questo perché, periodicamente, si sentono venti di cambiamento che portano quasi sempre alla conclusione che il profilo va eliminato.

Questo contrasta con l’insegnamento che “il bambino non è un piccolo adulto”, il che significa che la Pediatria è una specialità a sé stante, che necessita di personale altamente competente e specializzato (medico e infermieristico). L’anomalia al giorno d’oggi è che un infermiere laureato in infermieristica generale può, da profilo, lavorare in reparti pediatrici. Viceversa un infermiere pediatrico può, giustamente, assistere solo pazienti da 0 a 18 anni. Questi dedica tre anni di studio intenso e impegnativo esclusivamente in ambito pediatrico e neonatale contro un solo esame di pediatria dell’infermiere di assistenza generale.

La soluzione? Riformare le leggi in modo che nei reparti pediatrici possano solamente lavorare infermieri pediatrici o rivedere il percorso universitario? Questo è un dibattito che merita spazio a sé, ma ritengo comunque che sia importante far valere la specificità della figura professionale dell’infermiere pediatrico poiché credo nelle specializzazioni infermieristiche come nel modello anglosassone. 

Non uso a caso la parola "resistere", poiché credo che per mantenere la figura ci voglia una convergenza di intenti sia dall’interno, ovvero che l’infermiere pediatrico sia orgoglioso di esserlo e continui a formarsi per acquisire maggiori competenze, che dall’esterno, ovvero gli organi preposti a tutelare la figura infermieristica, quindi il collegio IPASVI.

Quanto può essere valutata la nostra figura da un organo che usa ancora una dicitura antiquata nel suo acronimo? (il VI di IPASVI significa Vigilatrice d’Infanzia, titolo che risale agli anni ’40, tanto per capire…). C’è poi la resistenza verso le politiche delle Aziende Ospedaliere che preferiscono assumere Infermieri di assistenza generale, perché più “versatili” su vari tipi di reparto. Con questa mentalità la qualità assistenziale, a mio parere, verrà sempre meno.

Oggi ci vengono richieste capacità sempre più versatili e specialistiche, quindi la strada deve portare all’esaltazione delle differenze e non all’appiattimento generale. È questo il messaggio che cerco di portare nel mio libro usando come pretesto uno studio clinico.

Ti sei impegnato negli anni sul fronte della cooperazione internazionale, che apporto possono dare gli Infermieri pediatrici?

Un apporto enorme, sia in termini di qualità assistenziale che organizzativa e manageriale. In ambito cooperativo si concretizza il percorso di autonomia che, nelle nostre realtà ospedaliere di tutti i giorni, l’infermiere sta cercando da anni di ottenere.

Si pensi solo che, in alcune importanti ONG, il Medical Coordinator - la figura di coordinamento tra équipe medica e infermieristica che spesso ha l’ultima parola su decisioni cliniche  e terapeutiche - è una figura ricoperta da un infermiere esperto.

Se penso che ho partecipato alla start-up di un ospedale in Somalia e che al triage prescrivevo farmaci, mi fa sorridere il fatto che tornato in Italia ritorno ad avere un ruolo quasi solo esecutivo rispetto alle decisioni mediche.

Ho perso tutte le competenze acquisite all’estero? E con questo non voglio fare la guerra delle competenze medico/infermieristiche. Credo che si debba lavorare con i medici e non per i medici, assistere i pazienti e non i pediatri, tutto qua.

In sintesi essere “complementari”. Ma questo dipende anche da noi. A volte penso che il più grande freno all’evoluzione infermieristica sia la frase “ si è sempre fatto così…”. È più facile lo so, il difficile è mantenere alto il livello di competenze e tentare nuove strade!

Dalla tua ricerca in ambito pediatrico e territoriale quali sono le prospettive e le potenzialità dell’infermieristica pediatrica? 

Nel mio studio ho cercato di capire quali fossero le competenze dell’infermiere pediatrico che potevano essere “trasferite” dall’ospedale al territorio e quale potesse essere la “ricaduta”, a livello teorico, sulla qualità assistenziale e sullo scarico di lavoro per l’ospedale, con particolare riferimento al pronto soccorso e per il pediatra di libera scelta.

Ne risulta che gran parte delle competenze che un infermiere pediatrico di pronto soccorso utilizza nel lavoro di tutti i giorni possono essere portate a livello territoriale.

Questo potrebbe significare gestire i codici bianchi e prestazioni semplici a livello ambulatoriale, scaricando gli ormai affollatissimi pronto soccorso pediatrici. Inoltre, dai questionari somministrati a pediatri ospedalieri, pediatri di libera scelta e infermieri pediatrici si evince che questo trasferimento di competenze potrebbe avere una ricaduta positiva sulla qualità assistenziale, riconoscendo l’infermiere pediatrico come mattone fondamentale di un sistema che creerebbe una rete tra ospedale e territorio purtroppo non sempre attuata.

Questo concorda con i dati trovati in letteratura e dal confronto con realtà estere, ad esempio il Regno Unito (e non credo che sia un caso l’essere stato contattato da una casa editrice inglese per la pubblicazione di questo studio) in cui l’infermiere pediatrico ricopre da anni un ruolo fondamentale sul territorio.

La nuova figura che si andrebbe a formare, ovvero l’infermiere pediatrico di famiglia, è stato positivamente sostenuto da tutte le categorie di intervistati. Visto che a livello teorico potrebbe funzionare adesso tocca fare il famoso step beyond

Cosa vorresti fare per l’infermieristica pediatrica in termini di riconoscimento, evoluzione, percorsi di studio e altro?

In parte l’ho accennato precedentemente. Vorrei che la figura professionale fosse unanimemente riconosciuta come importante e mai più messa in discussione. Da qui in avanti procedere all’evoluzione della figura stessa: specializzazione, riconoscimento economico, ecc…

Nel mio piccolo sono orgoglioso di questo studio, poiché da esso sono state approfondite alcune branche di ricerca che hanno portato a una piccola svolta a livello formativo. Da qualche anno ormai nel corso di laurea in infermieristica Pediatrica dell’Università di Torino lo studente in infermieristica pediatrica svolge un piccolo tirocinio in un ambulatorio di pediatri di libera scelta.

Questo ha sostituito in parte il tirocinio nel consultorio pediatrico. Potreste vedere studenti infermieri a fianco del pediatra quando portate il vostro bimbo, un po’ come succede con gli specializzandi in medicina. Sembra poco, ma è una gran cosa, perché è anche l’occasione per il cittadino di conoscere la nostra figura professionale e vedere cosa è in grado di fare.

Lo step di cui parlavo priva passa poi al volere politico: creare le unità territoriali diurne con medico di base e infermiere sul territorio, tanto acclamate in vari piani regionali, ma mai attuate. 

Il riconoscimento e l’evoluzione della figura infermieristica passano anch’esse dalla volontà politica. In questa metto anche il supporto dei collegi IPASVI. Ma siamo noi, come categoria, che dobbiamo spingere verso questo cambiamento ricordandoci chi siamo con orgoglio e professionalità.

 

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