A ridosso del 1° maggio ritornano le trattative – lo chiamano decreto coesione – per il mondo del lavoro. Quello di un anno fa ancora deve mostrare i suoi effetti e la musica di sottofondo è sempre la stessa: le risorse sono limitate. Uno scenario che si riproporrà, nel suo piccolo, anche in sede di trattativa per il Ccnl in sanità il cui prossimo incontro è previsto per il prossimo 7 maggio. Ma è meglio andare per ordine.
La domanda è semplice: quanto guadagna oggi un infermiere in Italia?
Il Ccnl parla di 29.233 euro lordi all’anno in media e più in generale lo stipendio può essere compreso fra i 24.157,38 euro (12,39 euro all’ora) e i 41.600 lordi anno, lungo un panorama retributivo che va dal settore privato (libera professione e cooperative comprese) al pubblico.
In realtà la forbice è ben più ampia, compresa tra i 1.000 e i 3.000 euro netti al mese. Indennità di servizio, turno, festività ed anzianità, come in molti settori, hanno il loro peso, senza contare poi le posizioni di coordinamento o quelle organizzative e via scrivendo.
Un quadro che, in diversa misura, ma in modo continuativo, fa gridare associazioni, ordini e sindacati per un riconoscimento monetario – e non solo – che premi nella misura dovuta l’importanza ed il peso della professione infermieristica.
Il ministro della salute, ad ogni occasione possibile, ricorda come lui si stia impegnando per fare in modo che le risorse disponibili vengano mobilizzate per gli aumenti retributivi del personale sanitario.
È lo stesso ministro però che siede in un governo in cui non si riesce a fissare un tetto al salario minimo di 9 euro (cosiddetta soglia di dignità), scelta che risulta più difficile che regalare soldi a privati (pro-vita e squadre di calcio), fare concessioni corporative (balneari), fare condoni di ogni tipo, progettare ponti ed altre facezie classiste (cioè a favore di chi ha, alla faccia di chi non ha).
Certo è vero che le retribuzioni dei sanitari in generale, e degli infermieri in particolare, andrebbero aumentate, ma rischia di essere appiattita unicamente in una prospettiva sindacale e politica miope ed illusoria, legata a qualche soldo in più – che non guasta mai, per carità! - in busta paga, ma che neanche servono a coprire l’aumento dell’inflazione di un paese il cui costo della vita non permette più a nessuno – tranne i soliti privilegiati – di fare progetti per il futuro. In molti casi non permette a milioni di persone di vivere anche solo l’attualità drammatica della povertà dell’oggi.
Serve investire in un lavoro di qualità
Da più parti, economisti di ogni settore, sottolineano come non basti aumentare la busta paga, ma sia necessario investire in un lavoro di qualità, che significa un lavoro migliore in termini di sicurezza, diritti, salari, orari, previdenza e sviluppo di carriera.
A chi ama seguire le chimere di una elevazione della professione e pensa ad una meritocrazia interna che riconosca diversi livelli di responsabilità e lavoro, retribuzione e carriera, è da ricordare che non c’è posto per tutti lassù, sui piani alti, e che in genere, come ricordava il duo canoro Togni e Morandi: “Uno su mille ce la fa”. Anche su duemila. Facciamo tre.
Più meritocrazia? Meno clientelismo? Premiare le competenze e le conoscenze? Certamente, ma tutto questo chi lo dovrebbe fare? Gli stessi che alimentano clientelismi e familismi di ogni tipo, arruffianamenti e fidelizzazioni, in una guerra fra poveri che alla fine, in qualche caso, da bilioso frustrato ti porta, a torto, a prendertela con chi ti sta attorno e, spesso, è più debole.
Sì, è vero: la coperta è troppo corta e non si può dare tutto a tutti. Ma la realtà è che si toglie tutto a quasi tutti ed invece di rivendicare garanzie e progresso si riesce solo ad azzannarsi fra ultimi. Ragionare sul proprio piccolo ristretto cono di luce può essere solo controproducente.
L’Italia è uno dei paesi d’Europa con i salari fra i più bassi, la precarietà lavorativa diffusa e la (in)sicurezza sul lavoro che produce ogni giorno tre morti e troppi infortuni e malattie. Per capirci. Il numero di lavoratori precari negli ultimi trent’anni circa (1998 – 2018) è aumentato.
Si è passati dal 12,1 al 27,3%. Una crescita che rivela anche l’aumento del lavoro grigio, cioè quella ricompensata da un salario erogato “fuori busta”. Fenomeno molto pericoloso, oltre che illegale, funzionale alla crescita della mancanza di sicurezza sul lavoro, di sub-appalti selvaggi, di mancate coperture previdenziali ed assicurative di vario tipo.
È cresciuto poi il lavoro povero, quello con redditi al di sotto degli 11.500 euro annui, con un passaggio dal 26,7 al 31,1 %. Nel periodo considerato poi la totalità di coloro che hanno preso un salario inferiore ai 9 euro l’ora (17.800 euro annui lordi) è passata dal 39,2 al 46,4%.
Molto altro si potrebbe aggiungere, ma tanto basta per rendere il quadro drammatico della situazione dove, anche in tema di retribuzioni, gli infermieri rappresentano un indicatore sociale delle pessime condizioni socio-economiche di questo Paese.
Insomma, se come infermieri ce la passiamo male significa che anche gli OSS, gli ausiliari, i tecnici e via dicendo non se la passano bene. E, fuori dal mondo sanitario, è altrettanto brutta la situazione per una grande parte della popolazione italiana. Per non dire drammatica.
Ancora una volta viene da dire che se si vuole stare meglio, lo si fa insieme. Da soli non si va da nessuna parte. Insieme si va avanti e si progredisce. Oggi e domani, sull’esempio della memoria lavorativa (si può dire proletaria?) del passato.
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