Forni crematori mobili. Non serve aggiungere altre parole all'orrore che soltanto tre parole riescono ad evocare di un passato che ritorna, riesumato. Mi viene da pensare che non sono serviti a niente i Giorni della Memoria, istituiti il 1° novembre 2005, giorno di Ognissanti, dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite per ricordare l'Olocausto. Per dire mai più. La pietà, il silenzio commemorativo, il capo chino, le pellicole cinematografiche, la musica di Schindlerr's list, le poesie, le testimonianze dei sopravissuti, la storia raccontata da Mario Rigoni Stern e Primo Levi, i seminari nelle scuole e le parole di Liliana Segre al Binario 21 a Milano, che ogni 27 gennaio orientano le nostre coscienze per creare una cultura di pace, sono bruciati un'altra volta dentro l'orrore di un forno crematorio.
Se questo è un uomo. Dovremmo chiedercelo ancora, dopo ottant'anni
Non trovo improprio il paragone con il popolo ebreo. Anche se non siamo di fronte ad un paragonabile genocidio, non c'è differenza quando si aprono i forni e la carne umana brucia, dopo essere stata uccisa. Poiché la guerra potrebbe durare più di quanto immaginiamo, secondo le fonti militari americane e le valutazioni strategiche della Nato, c'è da pensare se siamo in grado di sopportare anche solo l'idea che questo possa capitare ancora.
Mi chiedo se si possa essere davvero resilienti all'orrore e dove sta il confine etico e psicologico della tolleranza di fronte alla disumanità dell'uomo contro l'uomo.
Se Bucha ha cambiato la natura della guerra, come ha dichiarato l'ex presidente dell'Ucraina Petro Poroschenko dal fronte, che cosa cambierà nell'evoluzione del conflitto e dentro le nostre coscienze dopo i forni crematori di Mariupol? Gli ucraini chiedono tre cose. Armi, armi, armi. Il resto del mondo, almeno quello occidentale, vuole tre cose. Pace, pace, pace. Parole inconciliabili. Oppure, paradossalmente, come la storia insegna, una guerra finisce con un'altra guerra per farla smettere e riportare la pace. O quello che ne resta. Secondo gli analisti, nessuna sanzione economica, sinora applicata ad un Paese in caso di conflitto armato, ha mai fatto finire una guerra. Quale diplomazia è ancora possibile dopo uomini che escono dal camino e sono nel vento, coma cantavano i Nomadi?
La follia dell'uomo sta nel ripetere quell'orrore che prima aveva fermato. La memoria, custode di tutte le cose, ci ricorda che sono state le truppe russe a liberare i primi campi di concentramento tedeschi e a chiudere i forni di mattoni nel 1945. Basta allora sospendere la Russia dal Consiglio dei Diritti dell'Uomo delle Nazioni Unite per porre fine alla barbarie? È soltanto un atto dovuto mentre i forni mobili continuano a bruciare lungo le strade di Mariupol.
L'orrore a Mariupol viaggia infatti su camion speciali delle Forze di Occupazione: rimorchi di acciaio contengono forni cilindrici nei quali finiscono sia i soldati russi, per non riportarli in patria in migliaia di bare che sconvolgerebbero l'opinione pubblica, sia gli abitanti della città. Si cerca così di seppellire la notizia delle ingenti perdite umane nell'esercito russo e di far sparire dalla circolazione le vittime civili, cancellando l'abominio dei crimini di guerra e i crimini contro l'umanità.
Uomini. Donne. Bambini. Raccolti per strada e nelle case come spazzatura da incenerire. Si bonifica l'ambiente da tracce di vita annientata per sfuggire alla colpa. La vigliaccheria dopo l'infamia. La denuncia è lanciata dal sindaco della città, Vadim Boychenko, e confermata dal presidente ucraino, in conferenza presso i Parlamenti d'Europa, dopo le indagini condotte anche dalle autorità giudiziarie del Paese. Ci sono fotografie della stampa, immagini satellitari e intercettazioni delle varie Intelligence internazionali che documentano la storia attorno a Mariupol, senza lasciare dubbi. Ci sono documenti che raccontano anche la deportazione di centinaia di persone di quella regione, chissà dove. E poi ci sono centinaia di denunce depositate dalla popolazione superstite, dopo che l'esercito russo si è ritirato dalle cittadine attorno a Kiev. Di stupri. Torture. Assassinii. Persone scomparse. È come un'onda di marea che rivela i sommersi e i salvati.
Ieri c'è stato un forte richiamo del Presidente Mattarella ad un ritorno alla ragionevolezza. Il senso della ragione è stato perduto. Ma il dialogo ha ancora senso se parlano cadaveri inceneriti nei forni e carbonizzati dalle bombe? La documentazione video e fotografica è sconvolgente. Anche se l'alternativa è impensabile, come si fa a restare solo a guardare quando una città di mezzo milione di persone viene rasa al suolo e trasformata in un immenso campo di concentramento?
Se Mariupol in 42 giorni di guerra è diventata la nuova Auschwitz, che cosa possiamo fare stavolta per dire basta? Sono decisioni in mano ai potenti della Terra. Certamente non ci dovrebbe essere bisogno di chiedere se vogliamo la pace o i condizionatori accesi, come dichiarato dal premier Draghi in conferenza stampa.
Che razza di società siamo se dovessimo pensare a tenere al caldo e al fresco le nostre case o ci lamentassimo di non poter girare in auto? Non ci dovrebbe importare nulla di rimanere al freddo dopo ottobre, quando le scorte finiranno a causa del blocco dell'import del gas e petrolio russo.
Fintanto che non finiamo sotto attacchi missilistici e dentro un forno, non ce ne dovrebbe importare nulla di patire sacrifici e razionamenti in nome della pace che tanto teniamo sulla bocca. Per quanto tribolati, possiamo tribolare ancora di più se vogliamo davvero essere uomini tra gli uomini e provare a risolvere la crisi con le sanzioni senza andare a combattere.
Siamo in guerra, ma essere accanto da distanti non è mai essere con da vicino
Intanto sul fronte dell'emergenza sanitaria ed umanitaria, le autorità ucraine, l'Onu e l'Oms denunciano che sono stati colpiti ben 288 ospedali e 70-80 ambulanze di soccorso, oltre a 127 istituti per l'istruzione dei bambini. È allarme per i farmaci salvavita che mancano. Manca l'acqua, si beve acqua sporca. Manca il cibo. La salute fisica e mentale delle persone è già compromessa. Si sta assistendo inoltre ad una recrudiscenza delle malattie infettive come Covid19 e poliomelite.
L'interruzione dei servizi sanitari e l'inadeguatezza delle condizioni igieniche sta peggiorando la situazione epidemiologica anche di Hiv, tubercolosi e morbillo, come denunciato dal Cdc di Atlanta. Sono saltati anche i sistemi di sorveglianza, le vaccinazioni, le misure di contenimento dei contagi. Per proteggersi dai bombardamenti le persone si rifugiano in massa nelle stazioni delle metropolitane e nelle cantine. Sono in tanti e tanto vicini persino nei centri di accoglienza per i rifugiati a Liepoli, in Polonia, in Moldavia. Non si può fare distanziamento tra brandine e giacigli di fortuna, quando c'è una catastrofe umanitaria di dieci milioni di persone in fuga. Conta sopravvivere, il resto sono dettagli che passano in secondo piano.
Colpisce la notizia che all'ospedale militare di Zaporizhzhia continuano ad essere portati per le cure delle ferite di guerra anche centinaia di soldati russi, prima di essere affidati come prigionieri al Ministero della Difesa e ai Servizi Segreti ucraini. Il sangue è sempre sangue. I militari della Federazione russa sono talmente tanti che i medici scrivono il loro nome sulla fronte per poterli riconoscere. I sanitari che si stanno prodigando, oltre misura e in condizioni estreme, a salvare tutti, senza distinzione di bandiera e di pelle, descrivono i soldati russi duri e senza rimorso.
Stanno nella “stanza dei russi”, divisi dai civili ucraini. Hanno sempre in bocca la parola nazismo. Sono nazisti persino i bambini. Dobbiamo uccidervi tutti
, dichiarano anche tra i lamenti. Sono pieni di odio. Non dimostrano nessuna pietà
, racconta un'infermiera. Di fronte alle cure di un'altra infermiera un giovane soldato chiede: perché mi state salvando?
La pietà non ha un perché e un per chi.
Intanto in Veneto sono arrivati 234 bambini, non accompagnati. Non sono orfani. I genitori hanno messo i propri figli sul treno e sugli autobus, per salvarli, e sono rimasti in Ucraina. Quei 234 bambini, accolti all'hub di Noale (Venezia), hanno scritto sul braccio dei numeri. Di telefono. Quello di mamma o di papà. Rimasti laggiù. Lo racconta il Governatore del Veneto Luca Zaia.
Se questo è un uomo, i sommersi e i salvati sono tra noi e con noi.
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