You’re not alone. Così Kate Middleton, principessa del Galles, al termine del suo discorso con cui qualche settimana fa annunciava al mondo la sua malattia. Per un paio di minuti è sembrata più vicina e reale, così simile nella sua condizione di fragilità piuttosto che di regalità a tante altre donne con una vita normale che si ammalano di cancro. Si è fatta improvvisamente più umana allorché, da una semplice panchina nel giardino di casa, ha riservato l’ultimo pensiero, scritto di suo pugno, a tutti coloro che come lei stanno affrontando le cure esortandoli a non sentirsi soli.
Non lasciare solo qualcuno nella malattia è umanamente un'altra cosa
Con una malattia spesso mortale addosso come il cancro si è oggettivamente e soggettivamente soli .
I malati non dovrebbero sentirsi soli né essere lasciati da soli . Entrambe le condizioni, di fronte alla malattia, sono psicologicamente pesanti. Tuttavia, è innegabile che questa solitudine sia diffusa ovunque, nonostante le belle narrazioni.
Mi vengono in mente le camerate da quattro letti degli ospedali pubblici, senza tende alle finestre e senza intimità, dove le persone non si sentono meno sole che in una lussuosa camera singola di una degenza privata.
La solitudine in cui ci si ritrova da malato è ancora più evidente se si condivide la condizione con altri sventurati che talvolta nemmeno si parlano, pur condividendo un unico bagno e disturbandosi a vicenda, presi come sono a stare dentro il confine della propria unità di degenza e al pensiero dei propri malanni.
Mi vengono in mente i malati terminali che, non trovando posto negli hospice , sono lasciati a casa seguiti ad orario dal personale sanitario che è talmente poco sul territorio da non riuscire a stare dietro a tutti i bisogni e viene da ringraziare che in Italia il welfare sia tenuto in piedi da familiari che diventano caregiver, da badanti straniere pagate come una retta d'ospizio e volontari del terzo settore.
Mi vengono in mente gli anziani ricoverati presso le strutture residenziali a cui si va a fare visita la domenica, lasciandoli dentro per buona parte del tempo con l'unica occupazione di aspettare la fine di giorni, affidandoli alle cure di estranei. Talvolta la solitudine si accompagna alla tristezza di certi luoghi.
Con una malattia spesso mortale addosso come il cancro si è oggettivamente e soggettivamente soli, poiché soltanto chi ci è passato attraverso può realmente capire cosa significhi quella paura verso il male, cogliere la sofferenza intima, ricordare la sopportazione fisica della chemioterapia e rivivere l'incertezza nell'aspettativa di vita.
Le persone che restano accanto ad un malato non possono comunque riempire questa solitudine. Si è soli perché nessun altro può prenderne il posto. Spesso capita che siano gli operatori sanitari a cogliere, grazie all'empatia e alla vicinanza fisica nell'ambiente di cura che coincide con quello di lavoro, gli aspetti più duri della vita di un malato e a farsene carico, nel limite delle possibilità.
Farlo rientra comunque nelle loro attività di cura e del prendersi cura. Non lasciare solo qualcuno nella malattia è umanamente un'altra cosa, difficile anche per chi ha le migliori attitudini alla partecipazione emotiva.
L'organizzazione del lavoro in una corsia non sempre lascia il tempo necessario per fare altro, anche solo sedere al letto di qualcuno. Prendere una mano. Ascoltare, restare in silenzio. Piangere insieme. Esaudire un ultimo desiderio . Restare per accompagnare, se il turno è invece finito.
Nel minutaggio non è compreso il secondo da dedicare a tutto questo, che non è meno importante di una flebo da appendere. Dicono che il tempo di relazione, quella che servirebbe anche per non fare sentire soli, sia tempo di cura . In venti anni di esercizio, le occasioni che da relazione si sono trasformate in cura le conto su una mano e le ho sempre rubate ad altro che dovevo fare, considerato più urgente.
Quando il carico di lavoro poi è eccessivo, anche il buon proposito di non fare sentire soli i malati durante il turno trova il tempo che trova. Che non c'è. C'è solo stanchezza e velocità. Curare attraverso la relazione necessità di lentezza e di un approccio diverso, sin dal momento in cui si entra in una stanza di degenza senza dovere tenere d'occhio l'orologio, con una mano sul telefono del reparto e l'altra sulla cartella clinica da porgere al medico.
Non potendo colmare la solitudine dei malati con la nostra presenza e con le nostre capacità inclini all'ascolto e all'aiuto, non resta che fare in modo di non lasciarli almeno da soli davanti ad un sistema sanitario profondamente in crisi , che rischia di essere smantellato.
Oggi i malati sono soli davanti alle file dei Centri Unici di Prenotazione dove non trovano posto; quando arrivano finalmente allo sportello e restano perplessi con il numero della coda in mano. Sono soli di fronte alle liste di attesa e si dicono sgomenti e preoccupati che uno fa in tempo a morire prima di curarsi .
Sono soli dinnanzi ai soldi che non hanno per pagare un'altra visita specialistica privata. Sono soli persino davanti alle farmacie per una medicina aggiunta dal curante. Sono soli ogni volta che non sanno dove andare per avere prima una prestazione e a chi rivolgersi per avere un'informazione corretta o un'iniezione intramuscolare.
Sono soli davanti alla digitalizzazione, ai tempi del fascicolo sanitario sono pochi gli anziani che sanno destreggiarsi con i sistemi informatici per leggere il proprio referto o scaricarsi un'impegnativa elettronica.
In una popolazione sempre più vecchia e malata, la realtà è ancora fatta di tante solitudini e difficoltà. I cambiamenti necessitano di tempo e i miglioramenti di soldi.
Pertanto voglio continuare a vivere anche io, come ha detto Alberto Mantovani, in un Paese in cui una persona, se si ammala, debba preoccuparsi solo di guarire. E non di quanto costa la sua cura o di cosa fare quando scade l'assicurazione. Al Ministro della Salute vorrei dire soltanto di consentirci di continuare a fare miracoli. Chiediamo solo più risorse, meno sprechi e meno burocrazia . Così il noto immunologo italiano, Direttore Scientifico di Humanitas, centro milanese di eccellenza della sanità privata ed uno dei più importanti Irccs italiani.
Tutti hanno diritto a curarsi. L'Italia non diventi un Paese per ricchi , ha ammonito nel corso di una recente intervista rilasciata a La Repubblica. È uno dei 14 scienziati che ha firmato l'appello per salvare il Servizio Sanitario Nazionale , indirizzato alla Premier Giorgia Meloni.
Per non lasciare soli i malati non resta davvero altro se non difendere il sistema sanitario pubblico in cui la maggior parte della professione medica ed infermieristica è cresciuta e si è formata. Tanti Paesi del mondo ce lo hanno sinora invidiato per la sua universalità. Che nemmeno il National Health Service (NHS) britannico abbia uguagliato il nostro SSN, c'è da andarne fieri.
Gli operatori sanitari, guidati dai migliori scienziati del Paese, chiedono in fondo di essere messi nelle condizioni di continuare a lavorare bene, unendo alla competenza di cui hanno fama a livello globale quell'umanità propria della professione, scienza ed arte al tempo stesso, che permetterebbe di realizzare alte performance sotto il profilo clinico ed umano, senza lasciare indietro nessuno. Il tempo di fare i miracoli, nonostante la pochezza delle risorse, sta per finire. Ad un certo punto diventa impossibile fare anche quelli.
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