Le parole del Ministro dell’Agricoltura in merito al pericolo di sostituzione etnica, legata alla denatalità da un lato e alle spinte migratorie dall’altro, fanno pensare. Contemporaneamente la Presidente del Consiglio ha affermato il bisogno di dare lavoro prima agli italiani, ancor più alle donne e di sostenere anche la maternità. Tutto l’esecutivo prospetta la prossima costruzione di un welfare dove la famiglia sarà al centro degli interventi di aiuto. Non c’è da dubitarne, anche perché il welfare italiano, e quello mediterraneo, è già familiare, o meglio familistico, dato che, al di là dell’organizzazione dei servizi, da sempre si fa affidamento in Italia sul ruolo della famiglia nell’accudimento di chi è in difficoltà. A seconda poi della situazione socio-economica del paese, sulle famiglie pesa in maniera più o meno evidente l’assolvimento dei bisogni dei suoi cari. In un welfare universalista ed equo il peso è relativo, mentre in un sistema continuamente colpito da definanziamento, evasione fiscale, privatizzazione, sempre più i problemi sociali verranno racchiusi fra le quattro mura domestiche con una espulsione di fatto delle donne dal mercato del lavoro ed una crescita esponenziale dei problemi familiari, molto spesso affrontati a suon di violenze domestiche.
Ci si potrebbe fermare qui, ma c’è dell’altro. Molto altro
Il quadro generale tenderà a deteriorarsi con l’autonomia regionale differenziata, grazie alla quale le regioni più ricche aumenteranno le loro risorse, mentre i territori più poveri dell’italica penisola vedranno peggiorare le loro condizioni.
O meglio, ne soffrirà la popolazione di quei territori, già afflitti dall’azione di diversi politici parolai e amministratori truffaldini, criminalità organizzata, depauperamento della sanità e dell’istruzione pubblica e tassi di disoccupazione da paura dove le donne, ça va sans dire (ops! Ho fatto un’affermazione in lingua straniera.
Sarò multato per questo? Oh my god, che cosa disdicevole), sono colpite il doppio rispetto al resto del paese. E quando lavorano, sono destinate ad un salario molto inferiore a quello dei loro colleghi maschi.
Ragion di più, direbbe qualcuno, di incentivare il lavoro femminile. Certo, bisognerebbe capire come, e soprattutto a che prezzo, o meglio, con quale retribuzione, dato che l’esecutivo in carica considera che la regolamentazione salariale, cioè il salario minimo garantito, in un paese che ha le retribuzioni fra le più basse d’Europa, è più un fattore controproducente rispetto alla garanzia di… non si sa bene cosa.
Probabilmente le teste d’uovo del Palazzo qualcosa hanno già in mente. Non è chiaro però come si riuscirà a combinare il lavoro femminile con la maternità garantita a fronte poi di un’istruzione pubblica, specie quella delle scuole materne ed elementari, sofferente. Se non peggio. Alla fine comunque questi figli cresceranno e si dovrebbe prevedere per loro lavori retribuiti, coperture assicurative, corsi di studio necessari a portare l’italico sapere a livelli sempre più alti.
Attualmente la situazione non è fra le migliori. Anzi si parte da livelli decisamente pessimi se un quarto dei giovani italiani vive in povertà. Forse perché preferiscono oziare sulle poltrone domestiche e non vanno invece nei campi a raccogliere pomodori? Mhmm, non è così semplice come pare, come si usa ciarlare in campagna elettorale. E poi sarebbe da capire se le cose stanno veramente così dato che, sempre più giovani e sempre più italiani lasciano il paese per andare a trovare lavoro all’estero. Anche come camerieri o bariste, o sguatteri o a raccogliere pomodori, fino in Australia. Probabilmente perché sono pagati, e trattati, meglio che in patria (la devo scrivere con la “p” grande?).
A tutto ciò, come se non bastasse, si sommano i problemi della sanità pubblica, che vedono l’esplosione delle liste d’attesa – e non basta prendersela con la pandemia – la riduzione dei finanziamenti, i quali, a fronte di una media Ocse del 12%, scenderanno dall’attuale 7,1% al 6,2% nel 2025, mentre i grandi gruppi privati del mercato sanitario hanno visto in questi anni aumentare i loro introiti.
In un quadro generale dove la povertà delle famiglie, l’analfabetismo funzionale e di ritorno sono cresciuti enormemente. Un quadro quindi fragile che porta dunque a dire che i veri nemici dell’italica stirpe non sono quelli sui barconi, o coloro che si spaccano la schiena nei campi o nelle cucine dei ristoranti – spesso lavorando in nero – o nelle pieghe di questa economia cialtrona fatta di sfruttamento, evasione fiscale e delocalizzazione industriale.
Probabilmente i veri nemici di questo paese rischiano proprio di essere coloro che di concreto verso l’etnia italica fanno moltissimo a parole, ma nei fatti pensano solo alla loro dorata casta e spacciano questa fandonia dell’etnia che, da più parti, viene tacciata unicamente come una semplice riproposizione del concetto di razza
Difficile da capire? Bene, poche battute in chiusura. Per etnia si intende un concetto classificatorio di gruppi umani in base alla lingua, al territorio occupato, alla religione e a tradizioni comunitarie. Sul piano antropologico è un concetto che da più parti è considerato utile alla ricerca, ma sul piano politico, portando a classificare gli esseri umani in varie categorie, è decisamente pericoloso, oltre che antiscientifico e menzognero.
Sul piano della religione di quale etnia italiana si può parlare? Non certo in relazione agli ebrei, agli ortodossi, ai protestanti e degli atei. E neanche in rapporto a quel 32,4% degli italiani, sopra i 6 anni, che non ha frequentato un luogo di culto nell’ultimo anno (Istat, 2021). Non perdiamoci poi nel variegato mondo di tradizioni, valori, feste, sagre e culture che popolano e differenziano il Bel Paese da Nord a Sud e che difficilmente possono portare ad una categorizzazione condivisa.
Si può prendere in considerazione la lingua parlata allora. Quella di Dante, la quale però sembra che sia usata abitualmente dal 53,1% delle persone, specie all’interno della famiglia, che in questo caso si mostra poco italica, mentre in relazioni esterne la cifra sale, ma solo fino all’84,8%; e questo secondo dati Istat del 2012.
Per l’etnia italiana c’è sempre lo sport da considerare, come il calcio – vuoi mettere – ma dopo gli ultimi campionati del mondo mancati meglio parlare d’altro. E poi con i tanti soldi che pigliano i moderni gladiatori in calzoncini, rimane ben poco da avere in comune.
La pasta, allora? Forse, ma sembra che almeno per il 20% degli italiani non sia il primo alimento consumato abitualmente. A questo punto sembra proprio che l’affermazione “sostituzione etnica” abbia il valore che tutti hanno inteso: distraente sul piano politico, pericoloso sul piano istituzionale e tossico su quello culturale. In conclusione si può affermare che una qualsiasi supercazzola del Conte Mascetti, come già detto nei confronti di esecutivi non molto dissimili dall’attuale, avrebbe avuto maggior pregnanza.
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