Elisabeth Alexandra Mary, della casata nobiliare dei Windsor, se n’è andata. Tutti la conoscevano con il nome d’arte di Elisabetta II del Regno Unito. I funerali di stato, fra cerimonie e messe varie, dureranno per giorni. Londra verrà presa d’assalto: l’eccezionalità dell’evento lo impone. La morbosità dell’evento, pure. Fiumi d’inchiostro e di retorica tracimeranno in ogni dove. Protocolli di stato e diplomazie varie già sono al lavoro. Chissà se sul palco delle autorità Putin e Zelensky siederanno accanto. Per l’Italia probabilmente ci sarà Draghi che, ci auguriamo, forse dimenticherà la sua “agenda” alla cassa di un qualche pessimo duty free. Se tutto fosse accaduto fra un mese, è da chiedersi chi avrebbe rappresentato gagliardamente la sacra italica patria in terra di Albione.
La fine di una figura simbolica, non necessariamente positiva
Elisabeth in realtà ha visto cambiare il suo vero cognome, da parte del nonno, in piena Grande guerra in quanto era un po’ troppo tedesco, e stonava.
Il casato originale è quello di Sassonia Coburgo Gotha, regnante a varie riprese non solo nel Regno Unito, ma anche in Belgio, Portogallo, Sassonia, Bulgaria e Congo. Insomma, un curriculum di famiglia zeppo di incarichi.
Non poteva essere altrimenti per Elisabetta II che ha rappresentato, per i suoi sudditi, e per molti altri, un simbolo di stabilità, di pacatezza, di giustizia e di pace, al di là delle malelingue prezzolate e velinare che campavano, come parassiti grazie alle pruderie periodiche scatenate dalle vicende della famiglia reale.Insomma, Elisabeth come figura simbolica, anche se non necessariamente positiva.
Per molti probabilmente non lo è stata e di sicuro non presenzieranno ad alcuna delle future cerimonie. Non saranno presenti i popoli che hanno subito la fine dell’Impero britannico e la riconquistata libertà, pagando un caro prezzo in termini umani. Così è stato per i Kenioti e i Malaysiani, la gente del subcontinente indiano (Indiani, Pakistani, Singalesi e Bengalesi) e per gli Irlandesi del Nord che, causa la Brexit, qualche problema continuano ad averlo, assieme agli amici scozzesi. Non presenzieranno neanche i minatori inglesi e i soldati di leva argentini.
Assente anche il welfare inglese, segno per decenni di modernità e democrazia, universalismo e pace per molti, ucciso anni fa a colpi di liberismo thatcheriano. Sottolineature rancorose e ingiuste? Specie in un momento di lutto e di dolore? Mah! Si sta parlando di niente, ed Elisabeth nei fatti poteva fare poco per impedire tutto questo, stando al diritto costituzionale britannico.
Però viene da chiedersi se, dato che non aveva “alcun” potere decisionale, allora la sua figura rappresentava un simbolo in che cosa rappresentava un simbolo, ma soprattutto per chi? Non lo era certo per coloro che sono stati citati, e per i tanti nessuno che hanno subito le decisioni di qualcuno. Elisabeth era comunque un simbolo, ma era qualcuno che sicuramente non ha fatto il dovuto per chi era nessuno.
Elisabeth diventa regina nel 1952. Quattro anni prima darà alla luce il suo primogenito, colui che d‘ora in poi sarà chiamato Carlo III (al primo della serie non è andata molto bene). Quando Carlo aveva appena due anni viene pubblicato un bel libro autobiografico di Jennifer Worth, ostetrica, dal titolo: Chiamate la levatrice
e narra delle pessime condizioni di vita e di salute esistenti nei quartieri del East Side di Londra. Pressoché le stesse condizioni descritte, quasi venti anni prima, da George Orwell in Senza un soldo da Parigi a Londra
e circa mezzo secolo indietro dal celebra Jack London in Il popolo degli abissi
.
Più o meno è la stessa area che oggi vede acuirsi le disuguaglianze nella salute. Uno studio di qualche anno fa ha messo in evidenza come la speranza di vita nella popolazione londinese diminuisca andando dai quartieri più ricchi della zona di Westminster alla parte orientale della città, quella della fermata della metro di Canning Town. La differenza è di sette anni di vita nella distanza di sette fermate della linea della metropolitana.
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