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Editoriale

Diciotti, tacere equivale a rendersi complici

di Daniela Berardinelli

Dove inizia e dove finisce il nostro confine di essere umani, dove smettiamo di accogliere e assistere l’altro e decidiamo di serrare le nostre braccia ed innalzare un muro di no? Forse non stiamo solo lentamente morendo di cultura, forse abbiamo scelto una cecità, forse è più facile non vedere, non domandarsi quale sarà il futuro di quegli esseri umani che cercano disperatamente di raggiungere una terra ferma.

Forse non stiamo solo morendo di cultura, forse abbiamo scelto la cecità

L’inflazionato e discusso caso della nave Diciotti ormeggiata a Catania per dieci giorni non può averci lasciato indifferenti, non possiamo paralizzarci davanti ad un'azione di questo tipo. Le testate giornalistiche hanno riportato continui aggiornamenti in materia, alcuni migranti sono stati fatti scendere precedentemente dalla nave, perché in condizioni cliniche instabili, altri sono stati separati, fino alla decisione di accoglienza definitiva avvenuta per l’intercedere della Chiesa Cattolica che ha indetto ospitalità e accoglienza nei suoi centri, affiancata anche dalla partecipazione di Irlanda e Albania.

Gli italiani intanto si sono scatenati sui social network, battendosi per una partita che non ha né vincitori né vinti, ma solo un’amarezza e una sofferenza che rimangono tacite nel tempo dilatato dell’attesa della decisione definitiva in cui ci si domanda cosa ne sarà di quelle vite. Io inoltre mi domando: noi chi siamo”? Chi stiamo diventando?

Dove inizia e dove finisce il nostro confine di essere umani, dove smettiamo di accogliere e assistere l’altro e decidiamo di serrare le nostre braccia ed innalzare un muro di no? Forse non stiamo solo lentamente morendo di cultura, forse abbiamo scelto una cecità, forse è più facile non vedere, non domandarsi quale sarà il futuro di quegli esseri umani che cercano disperatamente di raggiungere una terra ferma.

Tacere equivale a rendersi complici, il silenzio implica indifferenza, sociale ed umana. Forse dobbiamo domandarci chi siamo, chi vogliamo essere, cosa vogliamo mostrare agli altri e cosa vogliamo trasmettere alle generazioni future

Ancora più facile sarebbe negare il problema, respingere tutto alla partenza e far sì che tutto ciò non sia mai accaduto. Rimanete a casa vostra, in qualche modo riceverete aiuto e se non ce la farete beh allora non sarà colpa nostra, se andrete incontro alle sventure o alla morte fatelo a casa vostra, noi non ne vogliamo essere spettatori, non abbiamo scelto questo spettacolo.

Chi siamo noi per decidere chi può cercare di vivere in modo migliore e chi no? Dov’è finita la nostra identità? Vogliamo veramente essere questo corpo senz’anima? E se un giorno toccasse a noi? O se tornassimo indietro nel tempo, ai fenomeni migratori che tanto hanno interessato il nostro paese a partire da fine Ottocento e proseguendo nel secolo scorso?

L’infermiere conosce i valori che influenzano la relazione terapeutica per poter assicurare un’assistenza competente. Per questo gli infermieri che si trovano nelle condizioni di dover intervenire in queste situazioni hanno esperienze e competenze specifiche e negli ultimi 10 anni sono stati tra i primi a prendere in carico oltre 100mila migranti e rifugiati e a loro va la nostra gratitudine.

Per questo non entriamo nel merito di scelte politiche ma lanciamo un appello: il diritto costituzionale alla salute e l’universalismo del nostro Servizio sanitario nazionale non possono essere dimenticati nel momento in cui qualcuno nei confini del nostro Paese ha bisogno di assistenza e soccorso per la sua salute, anche perché curare i singoli equivale a curare e proteggere tutta la comunità.

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