Accesso alle cure, assistenza adeguata, accesso alle terapie della gestione dolore, libertà di scelta, e tanto altro; questi alcuni dei diritti che una persona interessata, temporaneamente o meno, da una patologia ha il diritto di ricevere in maniera disinteressata, costante ed efficace.
Noi, la malattia, la comunicazione e la formula dell’amplificazione
In un percorso di questo tipo è giusto porre in primo piano questi aspetti, ma è altrettanto interessante soffermarsi anche sui doveri cui una persona malata dovrebbe attenersi; non è questa la sede per fare una lunga lista, pertanto vorrei soffermarmi solo sulla comunicazione del dolore e della sofferenza.
È un tema forse che non appassiona ancora coloro che si occupano di salute, ma credo meriti un’attenta riflessione che non pone la persona sofferente in secondo piano, ma la responsabilizza nel suo ruolo.
Spesso, infatti, si tende a concedere (in molti casi a ragione) alla persona malata una franchigia piuttosto ampia che prevede di esonerarla da una serie di doveri (appunto) che spesso, invece, potrebbero aiutare a vivere meglio la propria condizione.
Prendiamo per esempio la comunicazione verso il caregiver. Scagli la prima pietra chi ha o ha avuto un parente, un conoscente, una persona cara che in una situazione di fragilità ha pensato a investire il prossimo della propria sofferenza, senza curarsi minimamente dell’effetto che questo poteva avere su quest’ultimo. Non è una forma di cattiveria, forse una reazione a quanto si sta vivendo, condita però anche di una buona dose di egoismo.
Se quindi la situazione prevede una franchigia, è bene che, superata la soglia, la persona malata prenda coscienza di cosa accade intorno a sé e “pesi” bene chi è coinvolto
Non è, per inteso, un invito al silenzio o alla menzogna, bensì un consiglio ad analizzare quanto si sta vivendo e imparare a discernere quanto è opportuno dire, perché veramente importante e quanto si può evitare di dire perché non importante o attinente alla malattia.
È una questione di allenamento e metodo: iniziamo innanzitutto a informarci bene su cosa abbiamo, impariamo a capire il senso della nostra sofferenza, relazioniamoci con il personale sanitario in maniera costruttiva, ma soprattutto ricordiamoci chi è e che sensibilità possiede la persona che ci assiste o ci sta accanto.
Potremmo pertanto definire l’equazione come la formula dell’amplificazione. Nulla di scientificamente o matematicamente testato, sia ben chiaro, solo un piccolo esercizio per far riflettere. Il senso di tutto questo è far capire che spesso quello che viviamo, quando riferito alla persona vicina può essere percepito e letto in maniera diversa e moltiplicata per ∞ (infinito).
Siamo così certi che tutto quello che ci sta capitando vada riferito senza filtri agli altri? O forse è meglio imparare a prenderci noi cura della sensibilità di chi ci sta vicino e che già soffre di suo.
L’esercizio può anche portare a benefici inaspettati: un caregiver più sereno è una persona che può dare di più, costringere a cambiar vita anche al prossimo non è un buon esempio di amore e rispetto, quello che molto spesso si riceve incondizionatamente, ma sarebbe anche bello ricambiare.
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