I media ci chiamano eroi ma non siamo eroi, o meglio, lo siamo ma solo perché questa sanità pubblica è malata, vittima di una cattiva gestione e per tale ragione noi copriamo il lavoro con doppi turni e mancati riposi. Si lavora a ritmo così serrato che quando sei a casa il solo pensiero che dopo poche ore tornerai in turno ti fa salire un senso di vomito e di nausea, ma la coscienza e il senso del dovere trascinano noi operatori in corsia. Lo fai per i pazienti (noi siamo l’unica ancora che li sorregge in vita) e per i colleghi, che nel frattempo si sono ammalati contraendo il virus.
Lavoriamo in équipe e ci fidiamo dell’altro come di noi stessi
Chi scrive è un’infermiera di quasi 30 anni e lo fa dalla prima linea del fronte; lavoro per la maggior parte in Terapia Intensiva, ma ricopro ruoli anche in Pronto soccorso e 112, il tutto presso l’Ospedale Maggiore di Crema. Da quando questo Covid-19 è entrato nelle nostre vite, il tempo pare essersi coperto di un alone misterioso, un misto di paura, timore e la costante preoccupazione permea ciascuno di noi operatori sanitari.
Prima che questo virus ci proiettasse in un quotidiano incubo dal quale non si vede la luce in fondo al tunnel ero una ragazza estremamente positiva ed energica, sempre sorridente e pronta a dare il meglio di me al lavoro prodigandomi ad aiutare chi aveva bisogno; oggi mentre scrivo sento la mia situazione come cristallizzata, racchiusa in un futuro assai plumbeo, accuso acciacchi che nemmeno una donna di 45/50 anni ha.
La fronte e il naso segnati dalle protezioni e qualche disturbo dovuto allo stress, alla disidratazione e alla cattiva alimentazione. La quotidiana fatica mi fa sentire un viso cadente ed il mio sorriso è da tempo spento, sorridere costa fatica e poi come è possibile riuscire a sdrammatizzare quando attorno a te vedi spegnersi la vita di chi ti affida l’ultimo suo barlume di speranza. Ed il cuore si spezza, si frantuma, perché pare che ogni tuo sforzo non giunga a nulla e il tutto assume vacui contorni.
A farla da padrona spesso sono i doppi turni di lavoro a cui si sovrappongono più notti, si lavora a ritmo serrato senza nemmeno trovare il tempo per un sereno respiro chiusi in quegli scafandri che ti proteggono, ma così invasivi tanto da lasciare segni sul corpo.
L’impotenza sovrasta ciascuno di noi quando vediamo colleghi infettarsi, che nello svolgersi di un tampone, mutano la condizione da sanitari a pazienti, con le inevitabili ricadute psicologiche e morali che restituiscono l’esatta dimensione umana.
Così come quando riscontriamo la pochezza dei dispositivi di protezione, spesse volte continuiamo senza effettuarne la sostituzione nei tempi previsti perché il collega del turno successivo si troverebbe sprovvisto in tutto o in parte delle dotazioni.
Scrivo in questo momento al termine di un turno assai faticoso e lo faccio mentre raccolgo i pensieri di questa lunga e impegnativa giornata trascorsa tra i letti di pazienti affetti da questo dannato virus. Un collega mi ha raccontato che un decreto emanato dal presidente del consiglio per fronteggiare questa maxi-emergenza prevede un premio “una tantum” di 100 euro esentasse. Vorrei far sapere a chi di dovere che forse questi soldi sarebbe bene destinarli ad usi diversi.
I media ci chiamano eroi ma non siamo eroi, o meglio, lo siamo ma solo perché questa sanità pubblica è malata, vittima di una cattiva gestione e per tale ragione noi copriamo il lavoro con doppi turni e mancati riposi.
Si lavora a ritmo così serrato che quando sei a casa il solo pensiero che dopo poche ore tornerai in turno ti fa salire un senso di vomito e di nausea, ma la coscienza e il senso del dovere trascinano noi operatori in corsia. Lo fai per i pazienti (noi siamo l’unica ancora che li sorregge in vita) e per i colleghi che nel frattempo si sono ammalati contraendo il virus.
Desidero far sapere che delle volte mi sono capitati turni di 12 ore in cui non trovi nemmeno il tempo per una pausa, (non caffè), dove non si può bere per non dover poi andare in bagno e non c’è tempo per un pasto; è quasi impossibile poter mangiare perché la paura di potersi infettare è tanta, basta un solo gesto sbagliato, un piccolo momento di distrazione ed il danno assume proporzioni rilevanti anche perché è forte la preoccupazione di infettare i propri famigliari.
Già, i propri famigliari, questo virus è un male anaffettivo, ti allontana dai tuoi cari e ti costringe a stare lontana da loro
Ormai non conto più le volte che un malore per un calo di zuccheri o di pressione ti assale, per cui si cerca di resistere in piedi fino alla fine del turno perché se ti fermassi dei tuoi pazienti si farebbero carico i tuoi colleghi e questo è un lusso che nessuno di noi può avere, lavoriamo in équipe e ci fidiamo dell’altro come di noi stessi.
Quello che nessuno può sapere o immaginare è che una volta indossate con meticolosa scrupolosità le protezioni, mi ritrovo chiusa in quella tuta che mi accompagnerà fedelmente per tutto il turno, abbandono i pensieri personali e la mente corre ai pazienti da assistere e lo sconforto inevitabile giunge quando scopri che uno se ne è andato; lui si è arreso all’inevitabile ma io non ho il tempo di farlo, un altro ha preso il suo posto.
Dopo qualche ora che s’indossano le protezioni il dolore si fa sentire, loro devono stare bene adese al volto, tanto che lasciano tumefazioni ma non hai il tempo per pensarci. Capita poi che devi mettere a posto gli occhiali o la mascherina, allora senti la paura bussare sul casco e quel dolore insopportabile al viso, alle mani, cerchi di non sentirlo, di resistere, lo devi fare perché a casa ti aspetta la famiglia. Allora cerco di andare avanti e quel momento di sconforto lo ricaccio indietro e riprendo il mio lavoro senza mollare, perché l’unica possibilità che ho è quella di resistere.
Alla fine di ogni turno, quando finalmente ci si può dedicare a sé stessi, mi prendo tutto il tempo perché la svestizione è molto meticolosa, devo prestare attenzione a quello che tocco. Restare per così tanto tempo con indosso la maschera limita il respiro, quindi quando hai finito senti il bisogno di respirare a pieni polmoni, accusi la necessità di nutrirti di aria fresca; in quel frangente mi accade spesso di pensare a quanto sarà breve il momento in cui indosserò nuovamente le protezioni, solo in quell’istante realizzo che è meglio respirare lentamente per non andare in affanno.
Anche quando finalmente sono a casa e rifaccio la doccia mi rimane sempre l’impressione di avere addosso qualcosa, al termine rimetto una mascherina chirurgica e mantengo una certa distanza da mio marito, lui è davvero comprensivo per l’attuale momento che stiamo vivendo anche se non si spiega perché non si effettuano dei tamponi periodici per verificare lo stato di salute degli operatori sanitari.
Spesso il sonno è disturbato da quello che solo poche ore prima hai visto e non sempre riesci a chiuderlo fuori dalla porta
Sono certa che quanto da me sommariamente descritto sia condivisibile dalla maggioranza di noi operatori sanitari e sono altresì convinta - ed è questa la ragione per cui scrivo - che tutti voi non sapete nulla del nostro lavoro e lo dimostra questo simbolico riconoscimento di eroi di 100€, come se un eroe avesse un prezzo.
Scevra da ogni possibile retorica voglio ribadire con vigore che un eroe non è certamente chi svolge il suo lavoro, a me o meglio a noi operatori sanitari, sarebbe sufficiente che si mettesse mano al contratto da tempo dimenticato e attraverso l’applicazione normativa dello stesso. Così potremmo ottenere il giusto riconoscimento per una categoria professionale che quando c’è bisogno non si tira mai indietro (nemmeno quando veniamo ingiustamente aggrediti).
Spero che capiate che la sanità pubblica non è certamente meno valida di quella privata e voglio sperare che una volta chiuso questo momento così tetro noi non cadremo vittime dell’ingratitudine finendo relegati nel dimenticatoio
- Simona Monorchio - Infermiera
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