Dopo la mia decisione di allontanare da me ciò che ho di più caro al mondo per paura di portare a casa qualcosa che non conosciamo ancora bene e che fa paura a tutti, anche a noi, sono venuta a sapere che molti miei colleghi già impegnati in prima linea nei reparti Covid-19 dormono in auto nei parcheggi ospedalieri. Alcuni guidano fino a casa, ma non salgono ad abbracciare la moglie e i figli, restano a dormire in garage. So di colleghi che salgono le scale dell’appartamento ma dormono sul divano, mangiano a turno in cucina, indossano la mascherina chirurgica mentre preparano i pasti ai ragazzi. So di colleghi che chiamano gli amici al telefono per un saluto veloce e piangono la loro paura mentre guidano verso il turno del pomeriggio. E non possono dire per segreto professionale, non possono raccontare per l’incredulità della gente. Forse soltanto noi sanitari capiamo la gravità e la drammaticità di quel che sta accadendo nelle nostre città. Perché lo viviamo essendo chiamati ad affrontare un’emergenza sanitaria che nessuno si aspettava. Neanche noi.
Lotta al coronavirus, sanitari schierati come una falange macedone
Abito a seicento metri dall’Ospedale, un po’ oltre i duecento passi consentiti per legge. Ma sono un’infermiera ed ho il dovere morale di andare non soltanto a lavorare e il diritto civile di non stare a casa come gli altri.
Tengo un lasciapassare in borsa firmato dal mio Direttore Generale. Anzi, ne tengo due. Uno è personale, un’autocertificazione firmata con il cuore. Dichiaro sotto la mia responsabilità di “andare in visita al figlio minorenne, allontanato da casa e affidato alle cure e alla custodia dei nonni, per possibili contatti Covid-19 nel luogo di lavoro in quanto infermiera dell’Ospedale Civile”.
Come quando era bambino e lavoravo in Pronto soccorso. E mi dimenticavo di avere un figlio, me lo riprendevo quando timbravo il cartellino. Altrimenti non sarebbe possibile fare questo lavoro da eroi e da angeli, come ci descrivono. La testa deve stare sul pezzo se il pezzo tra le mani è una persona che ti viene affidata.
Non puoi essere distratta da quel che lasci a casa. Si rischia di sbagliare, non è concesso quando si a che fare con la vita. E con la morte. È il rischio clinico. Il rischio che corriamo ogni giorno. Per scelta. Per professione. Per fortuna esistono i nonni, quelli stessi anziani che stiamo perdendo prima degli altri, perché sono i più fragili in una popolazione di vecchi come sono gli italiani.
Lascio una borsa di ricambio della biancheria sull’uscio di casa e qualche libro di scuola oppure la torta della festa del papà prima di andare al lavoro, quando dentro sono ancora tutti addormentati. Faccio un salto veloce a fine turno, allungando soltanto di poche centinaia di metri il tragitto di ritorno verso casa e già mi sento in colpa per trasgredire la legge.
Ma lo saluto in giardino ad un metro e oltre di distanza di sicurezza, all’aria aperta e mi fermo soltanto un attimo per vedere il suo sorriso e chiedergli come è andata la sua giornata. Tra lezioni scolastiche on line e palestra fatta in casa. Tanto a scuola non ci tornano più. Deve allenare fisico e mente, perché vuole fare il soldato. Da grande.
Non manca tanto, soltanto un paio di anni e poi si arruola. Per difendere questo Paese e la sua gente. Come suo padre. Come me. Anche se su fronti di guerra diversa. Questa è batteriologica. Anzi virale. Mondiale.
Anche se io non sono ancora in prima linea, ma resto per ordine nelle retrovie. Il corpo dei sanitari è come una falange macedone, secondo il mio dg. Pronta a soccorrere i caduti e prendere il loro posto. Così è stato detto.
Sono un’infermiera, ma per una volta sono stata soltanto una madre. E la sera del primo decreto del Primo Ministro gli ho fatto la valigia. Sono una mamma e per un’altra volta ancora sono stata soltanto un’infermiera, una volta non di troppo, quando ho visto le immagini radiologiche e la Tac dei primi casi di Covid nel nostro nosocomio e sentito il quadro clinico dei ricoverati.
A noi infermieri basta poco per capire
A noi basta poco per capire, basta un’occhiata e un certo sesto senso affinato dopo anni di valutazione di segni e sintomi ai letti di corsia. Cogliamo i peggioramenti e sappiamo contare i giorni che mancano alla fine. Da un colorito strano della pelle, dallo stato di coscienza che perde colpi, dal respiro che cambia, dal cuore che si scompensa, dai nasi che si affilano.
Così è bastato vedere quei polmoni e parlare coi medici per rendersi conto che non era una banale influenza e una polmonite interstiziale bilaterale da classici manuali di medicina. Che era ben altro o era qualcosa di molto diverso.
Dopo la mia decisione di allontanare da me ciò che ho di più caro al mondo per paura di portare a casa qualcosa che non conosciamo ancora bene e che fa paura a tutti, anche a noi, sono venuta a sapere che molti miei colleghi già impegnati in prima linea nei reparti Covid dormono in auto nei parcheggi ospedalieri.
Alcuni guidano fino a casa, ma non salgono ad abbracciare la moglie e i figli, restano a dormire in garage. So di colleghi che salgono le scale dell’appartamento ma dormono sul divano, mangiano a turno in cucina, indossano la mascherina chirurgica mentre preparano i pasti ai ragazzi. Non fanno l’amore. Del resto, ci è fatto divieto per legge di baciarsi, abbracciarsi, stringersi la mano.
Ci si saluta con i piedi e con un cenno da lontano. Si cambia marciapiede se si incrocia un’anima per sbaglio. Si guarda con sospetto chi tossisce e starnutisce. Ci si tiene a distanza nei corridoi ospedalieri e la mascherina ben calata sui volti quando si lavora vicino. So di colleghi che chiamano gli amici al telefono per un saluto veloce e piangono la loro paura mentre guidano verso il turno del pomeriggio. E non possono dire per segreto professionale, non possono raccontare per l’incredulità della gente.
So di chi ha preso una stanza d’albergo, messa a disposizione da qualche buon cuore che ci ha pensato per dare sollievo. Forse soltanto noi sanitari capiamo la gravità e la drammaticità di quel che sta accadendo nelle nostre città. Perché lo viviamo essendo chiamati ad affrontare una emergenza sanitaria che nessuno si aspettava. Neanche noi.
Lo viviamo sulla nostra pelle sudata ricoperta per dodici ore dai DPI, sulla nostra stanchezza fisica e psicologica, sulla nostra paura di contagiarsi e soprattutto di contagiare. Questo non ce lo perdoneremmo mai
Abito a seicento metri dall’ospedale. L’infermiere che abita qualche civico più in là ha appeso alla ringhiera della terrazza un lenzuolo bianco con la scritta rossa “State a casa”. Sotto casa nostra passano abitualmente le ambulanze, si fanno largo tra il traffico, fanno il giro della rotatoria e sfrecciano.
Da quando c’è Covid in giro e nel silenzio della notte mi sembra di sentirlo strisciare virulento in cerca di respiri ancora buoni, le sirene le sento ancora di più. Ieri sera, mentre attendevo il discorso del Primo ministro alla nazione, mi sono affacciata alla finestra del primo piano per riconoscere magari i colleghi alla guida.
In quelle di ritorno ho visto, per ben tre volte, giovani uomini sulla lettiga con la maschera di ossigeno con il reservoir. Pallidi, come incoscienti. È bastato uno sguardo veloce dentro l’abitacolo illuminato per pensare che potessero essere pazienti covid e non infarti, ictus, traumi come è abitudine in tempi non pandemici.
Poi sono arrivate le gazzelle della Polizia, i poliziotti della volante con le maschere ben strette sul volto. Inseguivano auto che non si fermavano ai controlli. Poi il Ministro ha parlato. Dopo 973 morti in un giorno solo. Dopo le centinaia di bare di Bergamo portate via dall’esercito e cremate altrove.
Dopo i Navigli pieni ancora di gente e i centri commerciali di Milano e Padova presi d’assalto con i carrelli tutti in fila rigorosamente ad un metro di distanza. Dopo i vecchi che vanno a fare la spesa quattro volte al giorno. Dopo i corridori e i ciclisti di tutti i giorni e non solo quelli della domenica che si inventano sportivi pur di uscire nonostante l’hashtag stateacasa, tanto c’è quello andràtuttobene.
Dopo quelli che dicevano “tanto sono soltanto i vecchi a morire e quelli con patologie pregresse” e continuano a sentirsi giovani ed immortali. Dopo le mascherine con filtro alla popolazione e quelle chirurgiche ai sanitari. Dopo le amuchine e i disinfettanti andati a ruba in farmacia e rubati nei dispenser appesi ai muri ospedalieri. Dopo le discussioni tipo si muore “di coronavirus” o “con il coronavirus”.
Dopo le fake-news che dilagano sui social e le semplici disposizioni ministeriali e governative che ci si inventa in mille modi di trasgredire senza essere sanzionati. Dopo le fughe in treno verso il Sud che sembra un esodo. Dopo certa gente che pensa che l’emergenza finisca il 3 aprile come se il virus rispettasse i termini di un decreto.
Dopo tutto questo e molto altro che verrà fatto e che vedremo, come madre ed infermiera, senza dare priorità ai ruoli che di volta in volta mi metto addosso, lasciatemi soltanto una riflessione, perché tutto è stato detto ormai da altri in un mese di una pandemia in evoluzione, come il virus che muta e diventa ogni giorno più forte trovando la gente fuori. Già è stato detto che siamo professionisti, non eroi e non angeli.
Voglio dire soltanto che siamo di fronte a qualcosa di più grande di noi che ha le dimensioni di una catastrofe sanitaria ed umana davanti alla quale l’umanità si divide in chi ha cuore e chi no. In chi sente e chi no. In chi ha intelletto e chi no. E che siamo tutti comunque persone, non numeri.
Chiamateci per nome quando ci contate nei bollettini di guerra e nei dati epidemiologici della malattia.
Di malattia per i cittadini. Di infortuni sul lavoro per noi sanitari.
In assenza e carenza di dispositivi di protezione individuale adeguati necessari per andare incontro al Covid19 da eroi come ci vogliono a tutti i costi, è doveroso almeno fare questa sottile distinzione di fronte ad una morte che colpisce tutti indifferentemente.
E non guarda in faccia nessuno. Con o senza mascherina. Con filtro, di tessuto non tessuto, di panno firmato, di carta igienica e da forno. Con o senza il marchio CE. Con il made in Veneto o quello handmade fatte dai nonni e dai padri durante l’isolamento per proteggere la propria famiglia.
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