Andrà tutto bene. All’epoca ci credevamo davvero, cosa sarà andato storto?
Il racconto di un infermiere impegnato nell'emergenza Covid-19
Indosso il primo paio di guanti chirurgici, poi la tuta bianca, lasciando ancora fuori la testa dal cappuccio. Infilo il secondo paio di guanti e li fisso alla tuta con del cerotto. Mi porto davanti allo specchio, tenendo in mano dalla parte esterna la mascherina filtrante , l’appoggio sul naso e con la mano libera faccio passare gli elastici sopra la testa, in modo da fissarla al viso.
Faccio un’ispirazione profonda e controllo che la mascherina rientri in corrispondenza delle narici e della bocca: vuol dire che è a tenuta. Mi torna in mente la prima volta che l’ho indossata, mi sono sentito soffocare , avrei voluto strapparmela dalla faccia immediatamente, non pensavo di poterla indossare per più di qualche minuto. Adesso la tengo per ore.
Chiudo la cerniera della tuta fin sotto il mento e indosso anche il cappuccio. Inforco gli occhiali protettivi sopra i miei da vista: le lenti sono progressive e il secondo paio, seppur neutro, distorce il campo visivo; mi sono abituato anche a quello. Indosso il terzo paio di guanti e controllo che sia tutto a posto: sono pronto .
M’incammino verso la porta, schiaccio il pulsante a lato con il piede e questa comincia a scorrere verso destra.Entro nella zona filtro e mi porto davanti all’altra porta. Aspetto che quella alle mie spalle si chiuda e apro quella che mi sta davanti, a mano stavolta, perché il pulsante non funziona. Entro nella zona d’isolamento e chiudo, sempre a mano, la porta da cui sono entrato. Fa resistenza, cigola, penso che il binario abbia bisogno di essere lubrificato: lo dirò alla coordinatrice .
Mi guardo intorno, vedo i primi due letti con altrettante persone coricate. Loro non possono sentirmi né vedermi, sono sedati e una macchina li aiuta a respirare.
Eccomi entrato in territorio nemico: non è facile descrivere la sensazione che si prova, l’avversario c’è ma non si vede!
L’impressione è che impregni tutta l’aria e che solo il sottile strato di tessuto-non-tessuto di cui sono fatte le protezioni ci separi dal suo attacco. Ovviamente non è proprio così ma andatelo a spiegare al cervello. In ogni caso, avanzo.
Da dentro la bardatura sento il mio stesso respiro, come l’astronauta in quel film di fantascienza, come si chiamava? 2001: odissea nello spazio , o come Darth Vader in Guerre stellari .
In effetti, la mia sembra una tuta spaziale e quell’ambiente un’astronave: schermi, luci lampeggianti, tubi di plastica, apparecchi elettronici dappertutto. Come rumore di fondo, il bip dei monitor che scandiscono il battito dei cuori dei due pazienti, e quello dei ventilatori meccanici; il mio respiro, involontariamente, quasi si sincronizza con quello artificiale delle macchine .
Avanzo, mi porto verso le altre stanze in cerca del collega cui dare il cambio. Lo trovo, non lo riconosco: con quei tutoni bianchi sembriamo tutti uguali , più o meno, tanti pupazzi di neve o omini Michelin. Inizia a darmi qualche consegna, intuisco che è una donna, ho capito anche chi è. Quando ha finito di parlare si avvia verso l’uscita, la saluto: il mio turno è appena iniziato .
Controllo dei parametri, registrazione, terapia: il lavoro procede nella sua sequenza routinaria. Dentro la tuta idrorepellente total body, pur senza aver fatto qualcosa di particolarmente faticoso o stancante, sento già una gocciolina di sudore scorrere lungo la schiena, poi un’altra sulla fronte, sulle gambe e sulle braccia. Ogni volta è una sauna .
Uno dei pazienti è sveglio, anche se ancora dipendente dal ventilatore meccanico attaccato alla cannula tracheostomica . Non è molto che ha riacquistato lucidità.
Anche quando l’effetto dei sedativi svanisce, non è facile mantenere il cervello ancorato alla realtà in un reparto di Terapia Intensiva . Si perde il senso del passar del tempo, i minuti sembrano ore, le ore giorni, e anche quello del ritmo sonno-veglia.
Questi sono pazienti che sono stati addormentati giorni prima e poi risvegliati in un ambiente completamente diverso. Non sanno che giorno è, dove si trovano e dove sono i loro cari. Dentro la zona d’isolamento abbiamo un telefono cellulare, il medico propone al paziente se si senta di telefonare e parlare ai propri familiari a casa. Gli abbiamo da poco sgonfiato la cuffia della cannula tracheostomica: adesso i bronchi sono di nuovo in comunicazione con la laringe e l’aria che esce dai polmoni può nuovamente far vibrare le corde vocali; può parlare, dopo settimane può parlare e farsi sentire.
Componiamo il numero : Buongiorno, signora, chiamo dall’Istituto… c’è qui in linea suo marito, glielo passo . Ciao, tesoro , sussurra il paziente. Dall’altro capo si sentono delle grida, di felicità immagino. Sento gli occhi inumidirsi e questo non è un bene . Mettersi a piangere dietro una bardatura come la mia è un inferno. Gli occhiali si appannano, il naso comincia a colare. Non respiri e non puoi soffiartelo, perché non puoi abbassare la mascherina filtrante. Reprimo il singhiozzo, devo uscire dal box, non posso farmi vedere in quelle condizioni. Respiro con la bocca aperta, iperventilo, mi gira la testa, tiro su col naso, cerco di calmarmi, di riprendere il controllo, inspiro ed espiro e pian piano torno alla normalità.
Normalità: una parola che ha assunto un significato tutto nuovo
Sento la porta della zona filtro aprirsi, tiro un sospiro di sollievo: è il cambio, il mio turno è finito. Il tempo di scambiare due parole e le consegne e via verso l’uscita, a togliermi lo scafandro con un rito che fa da contraltare a quello iniziale.
La porta scorrevole si apre, mi porto davanti allo specchio. Tolgo gli occhiali protettivi e li immergo nella bacinella piena di disinfettante. Mi abbasso di qualche centimetro sotto il mento la cerniera della tuta e sfilo il cappuccio dietro la schiena. Apro il resto della cerniera e afferrandomi le maniche da dietro la schiena, comincio ad abbassarmi la tuta. Se va bene, insieme alle maniche, verranno via anche i primi due paia di guanti, altrimenti dovrò sfilarmeli in un secondo momento.
Non è questo il caso: ormai ho acquisito una certa dimestichezza. Tiro giù il resto della tuta , toccandola dal lato interno per non contaminare l’ultimo paio di guanti diventati ormai una seconda pelle. Via anche i calzari: tutto finisce dentro il contenitore di rifiuti ospedalieri.
Spalmo del gel igienizzante sui guanti e ne indosso un altro paio; con una mano tolgo gli occhiali e con l’altra la mascherina filtrante. Infine, levo i guani. Le mani sono sudate e innaturalmente pallide. Mi guardo allo specchio, fatico a riconoscere il volto riflesso. Gli elastici della mascherina e del cappuccio hanno scavato profondi solchi sulla pelle, la gobba del naso è bella arrossata : tra maschera e doppi occhiali è troppo il peso da sopportare. Niente male, i segni spariranno entro pochi minuti, perlomeno quelli che si vedono allo specchio.
Esco dall’istituto, mi fermo a prendere una boccata d’aria fresca prima di indossare la mascherina. Guardo il cielo, limpido come non lo era più stato negli ultimi cinquant’anni. Raggiungo l’automobile e prendo la strada di casa. In giro non c’è nessuno, come al solito. Da dietro le finestre dei palazzi che danno sulla tangenziale si intravede qualche movimento. Qualcuno esce sul balcone, forse attirato dal rumore del motore, un suono inconsueto ultimamente.
Guido piano, non ho motivo di correre, osservo lo spettacolo che qualche tempo fa avrei definito surreale ma che oggi è la realtà quotidiana. Accendo l’autoradio: la prossima distribuzione di viveri avverrà... grzzzzz. Interrompo la caratteristica voce dei comunicati del gazzettino sintonizzandomi sull’unico altro canale, quello che trasmette musica 24 ore su 24.
Un daino mi attraversa la strada correndo, scene come questa non sono rare: la natura pian piano sta occupando gli spazi lasciati liberi dall’uomo. Lungo il tragitto m’imbatto in un posto di blocco, anche questi incontri ormai non sono inusuali. Il militare mi mostra la paletta: accosto. Abbasso il finestrino, solita routine: Dove va? Da dove viene? Fornisca i documenti . Glieli porgo e attendo, non ho fretta e neanche lui.
Una folata di vento solleva polvere, guanti di plastica e qualche mascherina. Questo resterà della nostra civiltà: polvere, guanti di plastica e mascherine. Un foglietto di carta stropicciato finisce sul parabrezza della mia auto, quasi senza pensarci allungo la mano dal finestrino per tirarlo via ma invece, attirato dai colori che vi intravedo sopra, lo porto dentro. Lo rigiro e lo guardo: è il disegno infantile di un arcobaleno con una famiglia ai suoi piedi, uno di quelli con la scritta “Andrà tutto bene ”, con una bandiera italiana a fianco. In un angolino leggo la firma del bambino che l’ha schizzato, Giuseppe, e una data: 25 aprile 2020. Andrà tutto bene. Sì, all’epoca ci credevamo davvero, cosa sarà andato storto?
Roberto Azzara - Infermiere
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