Tanto è forte, in questa emergenza globale, la voglia di tornare alla normalità che si rischia di legittimare di nuovo la meschineria di sempre: Grazie per il Covid che ci porti tutti i giorni
è stato scritto su un cartello condominiale all’indirizzo di un’infermiera “rea” di fare il suo lavoro. Già l’eroe di oggi torna ad essere il monatto del passato. Un piccolo segnale utile per capire che non bisogna restare inermi ad aspettare, sperare, credere che senza fare nulla tutto si aggiusterà. La festa del Primo Maggio esiste proprio perché i lavoratori non sono stati ad aspettare che le cose si aggiustassero. E se è vero che una pandemia è come (e forse peggio di) una guerra, allora la pace e il dopoguerra bisogna iniziare a costruirle sin da ora, investendo la determinazione e la solidarietà, il lavoro di squadra, quello vero fatto gomito a gomito, in molti contesti. E le relazioni costruite, i saperi condivisi e tutto ciò di grande e utile e bello che abbiamo costruito in queste settimane.
Festa del lavoro dedicata a chi difende e lotta per la sua e l’altrui vita
Tempo fa un collega mi mostrò una foto - trovata in rete - di una parata del primo maggio ad Oslo. Fra i tanti rappresentanti di varie professioni c’erano anche una decina di infermiere, in tenuta da parata, con tamburi e striscioni, a sfilare per la capitale norvegese, portando all’esterno l’orgoglio infermieristico e quello più generale, data la ricorrenza, della classe lavoratrice.
Un fatto insolito, per noi italiani, abituati ad associare il Primo Maggio al concerto romano organizzato dai sindacati che, sicuramente, quest’anno non ci sarà. Sarà pure improbabile nell’immediato, ad Oslo, che si torni a sfilare in parata per il pride infermieristico.
A dire il vero non ce n’è tutto questo bisogno, dato che i media, quasi quotidianamente, mostrano una forte attenzione verso i professionisti sanitari in generale. La rivista Internazionale ha pubblicato uno speciale dal titolo: “Foto. Diario per immagini della pandemia”.
In copertina c’è il viso, segnato dai DPI indossati, dell’infermiera Eleonora Hulsof di Pesaro, il capoluogo di una provincia che, dopo quelle lombarde, è risultata la più colpita dal contagio e dalla letalità del virus.
Molte sono le storie fotografiche dell’oggi malato a rappresentare un presente di alienazione di cui tutti ne vogliono la fine, al più presto. Una voglia di normalità talmente forte e legittima da far desiderare anche il ritorno all’anormalità del recente passato, quella che ha creato le condizioni per lo sviluppo del virus, debitore del suo successo, verso chi ha tagliato i letti di terapia intensiva, di degenza o il numero dei reparti, degli ospedali, del personale. “We won’t return to normality, because normality was the problem”, come ha scritto qualcuno.
Tanto è forte la voglia di tornare alla normalità che si rischia di legittimare di nuovo la meschineria di sempre: “Grazie per il Covid che ci porti tutti i giorni, qua ci sono anziani e bambini”, è stato scritto su un cartello condominiale in provincia di Lucca all’indirizzo di un’infermiera “rea” di fare il suo lavoro.
Già l’eroe di oggi torna ad essere il monatto del passato. Un piccolo segnale utile per capire che non bisogna restare inermi ad aspettare, sperare, credere che senza fare nulla tutto si aggiusterà.
La festa del Primo Maggio esiste proprio perché i lavoratori non sono stati ad aspettare che le cose si aggiustassero.
Era il 1886 e a Chicago per il 4 maggio era prevista una grande manifestazione operaia a conclusione della campagna di lotte fatte per la conquista delle otto ore lavorative. Durante la manifestazione scoppiarono disordini volutamente pilotati per far fallire le rivendicazioni dei lavoratori. Ci furono morti e feriti, tanti. La colpa alla fine ricadde sugli organizzatori e vennero incolpati di questo otto sindacalisti, di origine tedesca e anarchici. Stranieri e ribelli, il capro espiatorio ideale.
Cinque di loro furono impiccati (uno si suicidiò prima dell’esecuzione), gli altri alla fine vennero scarcerati. Da allora il Primo Maggio è un’occasione in cui il movimento dei lavoratori cerca di imporre le sue ragioni negate e calpestate. Durante il fascismo in Italia, chi osasse andare in giro con un garofano rosso, solo per onorare la festa allora proibita dal regime, veniva malmenato ed incarcerato. Oggi i tempi sono diversi, ma molto è rimasto da dire e da fare. In special modo in qualità di infermieri e di lavoratori. Un esempio in merito ci viene sempre dagli Stati Uniti, meno lontano nel tempo.
A Youngstown, in Ohio, a metà strada fra Detroit e Pittsburgh, il Primo Maggio del 2002 circa seicentocinquanta infermiere del Northside Hospital incrociarono le braccia per ottenere orari e stipendi migliori e dopo tre settimane di lotta solo cinque di loro, ritornarono al lavoro e, alla fine, nonostante i turni coperti da infermiere crumire assunte con contratti di pochi giorni, la vertenza sindacale fu vinta.
Ruth, una delle infermiere leader della lotta, disse che le condizioni di vita e di lavoro delle infermiere erano così peggiorate nel tempo che non era più possibile aspettare. Non era più possibile andare avanti in quel modo.
Di conseguenza si erano attivate secondo gli esempi e gli insegnamenti dei loro genitori, appartenenti per lo più alla vecchia classe operaia di uno dei distretti più industrializzati degli States. La stessa che, in piena Seconda Guerra Mondiale, era scesa in sciopero per ottenere migliori orari e stipendi più alti, carichi di lavoro ridotti e maggiore sicurezza per la salute. Rivendicarono e vinsero.
E se è vero che una pandemia è come, e forse peggio, di una guerra, allora la pace e il dopoguerra bisogna iniziare a costruirle sin da ora, investendo la determinazione e la solidarietà, il lavoro di squadra, quello vero fatto gomito a gomito, in molti contesti. E le relazioni costruite, i saperi condivisi e tutto ciò di grande e utile, e bello che abbiamo costruito in queste settimane.
Dal canto mio non posso che dedicare questo augurio per la festa del Primo Maggio a tutte e tutti coloro che non ci sono più, a chi difende e lotta per la sua e per l’altrui vita, e non solo.
Un pensiero anche a Mustafa Koçak ed Helin Bölek, componenti della storica band musicale Group Yorum, morti per lo sciopero della fame intrapreso a difesa dei diritti negati nella Turchia di Recep Tayyip Erdogan.
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