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1 maggio

Seconda giornata della festa dei lavoratori in era Covid-19

di Giordano Cotichelli

Ben arrivati nella seconda giornata della festa dei lavoratori in era Covid-19. Le tragedie e le paure, le vittime e le miserie di un anno fa hanno lasciato spazio ad altrettante tragedie, vittime e paure, ma con una dose maggiore di cinismo, minore solidarietà e tanta più stanchezza per le due ondate quasi consecutive seguite al modico ottimismo estivo. Personalmente mi interessa che questo Primo Maggio sia un’occasione in più per ragionare sul nostro lavoro, sulla nostra società. Sui compiti che ci aspettano una volta liberi degli scafandri. Perché molti compiti ci aspettano. E c’è molto da rivendicare per poter riavere almeno la parvenza di un paese normale.

Questo Primo Maggio sia un'occasione in più per ragionare sulla società

Primo Maggio 2021: un'occasione in più per ragionare sulla società

Qualche giorno fa, sui soliti canali social che replicano spezzoni di talk show, si è assistito, in tema di riaperture, coprifuochi ed altre amenità, all’incontro/scontro fra un tecnico ed un politico: il primo forte del suo sapere, l’atro forte delle sue rivendicazioni. Verrebbe voglia di schierarsi a favore dell’uno o dell’altro – ed uno dei due sicuramente è dalla parte del torto – ma si sbaglierebbe, in quanto si legittimerebbero prese di posizione antitetiche, senza dare spazio ad argomentazioni, valutazioni, mediazioni e sintesi necessarie.

Il tecnico non può essere l’unica voce in capitolo nella gestione della società, mentre il politico, voce della società, o di parte di essa, dovrebbe ricercare delle risposte (soluzioni) ai problemi di cui si fa portavoce. Riaprire o meno le attività, avere o meno un limite di orario serale, non può essere oggetto di “contrattazione”, ma deve rispondere a esigenze concrete di sicurezza collettiva in primo luogo e valutazione delle scelte da fare sul piano sociale ed economico.

Il resto sono chiacchiere. È spocchia accademica, è populismo elettoralistico, è arretramento politico e culturale del paese. Se non peggio, data l’affermazione del “rischio calcolato” fatta dal Presidente del Consiglio cui, però, va indirizzata la domanda: Rischio calcolato in termini di vite umane?

Ben arrivati nella seconda giornata della festa dei lavoratori in era Covid-19. Le tragedie e le paure, le vittime e le miserie di un anno fa hanno lasciato spazio ad altrettante tragedie, vittime e paure, ma con una dose maggiore di cinismo, minore solidarietà e tanta più stanchezza per le due ondate quasi consecutive seguite al modico ottimismo estivo. Ed anche l’estate che verrà, viene vista con un senso misto di liberazione e rassegnazione.

Le regioni, in tema di vaccinazioni, hanno fatto di tutto ed il contrario di tutto. I lavoratori, nel mondo sanitario e ad ogni livello, stanno resistendo oltremodo. Chi non ha più un lavoro, di più. Gli sciacalli di sempre cianciano di sciocchezze per un pugno di voti, per nascondere la loro responsabilità di governo – specie regionale - nelle tragedie occorse.

Dal canto mio io sto con chi si interessa di zanzare, per salvare vite umane, e rifuggo da chi non ha mai né studiato né lavorato, se non per godere dei bizantinismi di Palazzo, e continuare a stare al potere. La stupidaggine e la follia sembrano quasi essere assurte a metodo, ad esempio.

Ho un amico, un caro amico, che dall’inizio della primavera scorsa nega la pandemia in atto. È diventato no mask, no vax (non ancora si dux, per fortuna) e se ne va in giro con un fascio di foglio A4 in cui ha stampato articoli vari che dimostrerebbero la falsità di tutto ciò che sta accadendo. Spero non si faccia male e non faccia male agli altri.

Ho anche un’amica che fa la cassiera in un supermercato e mi ha chiesto se la sua era considerata categoria a rischio meritevole di essere vaccinata al più presto. Le ho detto che così mi auguravo, nonostante i molti dubbi nei confronti di chi dovrebbe fare gli interessi dei più fragili, dei lavoratori, degli ultimi.

Nella giornata del primo maggio 2021 si può alzare la voce e rivendicare la riduzione dell’orario di lavoro? Non a parità di salario, s’intende. Quello di adesso fa schifo e quindi più soldi e meno orario? È sbagliato chiederlo ora? E quando, sennò? In questi mesi gli invisibili di sempre - rider, precari, lavoratori di Amazon e operai prossimi a perdere il lavoro (es. l’Elica di Fabriano) - hanno cercato di far sentire le loro ragioni. È stato permesso loro di manifestare. Qualcosa si è ottenuto, ma il governissimo in attività prevede un futuro di tagli, restrizioni, sacrifici e totale liberalizzazione del mercato del lavoro.

Cerchiamo di essere concreti. Mentre chi rivendicherà per la professione infermieristica i soliti vecchi e desueti slogan del passato, utili nella migliore delle ipotesi per ristrette e privilegiate minoranze, è forse ora di chiedere cambiamenti concreti per la professione?

Basta con le 36 ore settimanali, con gli stipendi fermi al secolo scorso e con un’organizzazione ed una formazione continuamente in affanno. Basta con le carriere, all’interno della professione, improvvisate, residuali e frutto spesso dei soliti clientelismi di sempre. Attenzione, per carriera, sul piano lavorativo, si intende una visione lungimirante del professionista infermiere, all’interno del sistema sanitario nazionale, che lo ponga in maniera diversificata nei luoghi di lavoro, in rapporto progressivamente legato alle sue capacità cognitive e esperienziali e alle sue possibilità fisiche e psicologiche.

Non si può più lavorare dopo i cinquanta anni nei luoghi dove carichi di lavoro e turnistica sono insostenibili anche per un giovane neolaureato. Non si può più considerare il burnout come un prodotto del destino. Il burnout professionale è il chiaro segno dell’incapacità di una classe dirigente (anche infermieristica), di porre rimedio al peso insopportabile che la professione infermieristica vede aumentare nel tempo sulle spalle del singolo.

E forse, è peggio oggi di quando dovevi arruffianarti con la suora caposala per farti spostare di reparto. Antonio Cotichelli, portantino di ultima categoria, personaggio di fantasia del film di Ettore Scola “C’eravamo tanto amati”, interpretato da Nino Manfredi, paga il suo attivismo politico – è comunista – vedendo perennemente il suo status retrocesso dalla dirigenza sanitaria. Oggi forse qualcosa è cambiato?

NurseReporter

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