Siamo diventati d’improvviso centro di riferimento per il Covid-19
Infermiere al lavoro nell'assistenza a pazienti Covid-19
Ho 30 anni e sono un’infermiera. Lavoro nel reparto di medicina di una clinica privata del nord Italia. Quando è scoppiata l’emergenza Covid-19 , in un primo momento il mio ospedale non ha messo in atto alcun cambiamento, continuando ad operare come se nulla fosse, rimproverando gli operatori sanitari che usavano le mascherine in reparto perché creano allarmismo tra i pazienti .
Amo il mio lavoro e l'ho sempre svolto con amore e passione, sono sempre stata pronta ad affrontare qualsiasi realtà lavorativa, qualsiasi batterio o virus; non mi è neppure mai pesato lavorare la domenica o a Natale. Sono sempre entrata in reparto con il sorriso e ho sempre svolto nel miglior modo possibile il mio lavoro.
Ho iniziato a preoccuparmi quando, ascoltando i telegiornali e leggendo le notizie, ho capito ciò che questo virus stesse provocando. Piangevo quando, leggendo le storie di molti miei colleghi costretti a lavorare con i pazienti positivi e a sopportare turni massacranti , mi immedesimavo nelle loro storie, condividendo la loro preoccupazione di essere contagiati e di poter contagiare a loro volta altre persone.
Molti miei cari amici si erano ritrovati a lavorare nei reparti con pazienti Covid positivi ed io, con il cuore a pezzi, rivolgevo a loro il mio ultimo pensiero prima di dormire. Pensavo però egoisticamente che questo a me non sarebbe successo, che il mio ospedale fosse in questo caso “protetto”, che non avrebbe cioè accolto pazienti positivi al virus, non essendo esso in alcuna maniera attrezzato ad affrontare un’emergenza di questo tipo .
Sono infatti abituata a lavorare spesso senza presidi, a sperare di avere i guanti monouso il fine settimana o ad avere presidi idonei per svolgere al meglio il mio lavoro. Poi, da un giorno all'altro, hanno annullato tutti gli interventi programmati, hanno allestito le sale operatorie come se fossero terapie intensive, hanno dimesso tutti i pazienti e siamo diventati d’improvviso centro di riferimento per il Covid-19 .
È bastata una sola dimostrazione di 15 minuti per addestrare il personale su come vestirsi e svestirsi , su come gestire la situazione. Quindici minuti e ci siamo ritrovati d’improvviso all’interno di questi reparti definiti grigi e rossi, in base alla criticità dei pazienti Covid positivi.
Il giorno in cui ho ricevuto la chiamata della mia coordinatrice che mi chiedeva di iniziare il mio turno alle 20 perché avrei lavorato 12 ore nel reparto con i pazienti affetti da Covid-19, chiusa la chiamata, ho pianto. Mi sono sentita sola, fragile, mi è crollato il mondo addosso. Ho pianto perché avevo ed ho paura, paura di contrarre questo virus , paura di non essere abbastanza protetta per rimanere sana.
I miei colleghi ed io stiamo vivendo momenti difficili, momenti di terrore, siamo stanchi fisicamente e psicologicamente
Ho paura di mangiare, di bere, paura di non aver messo la mascherina bene, di contagiarmi ogni volta che devo riutilizzare il camice che mi ero tolta poco prima per passare dalla zona sporca alla zona pulita, di aver toccato involontariamente la visiera o i capelli con i guanti sporchi.
Ho smesso di sorridere, ho smesso di andare a lavoro con la consapevolezza che con il mio lavoro avrei guidato qualcuno verso la guarigione o ad avere una degenza meno pesante. Ora entro in reparto con la speranza di riuscire almeno a salvare qualcuno, con la paura di essere l’ultima persona che i miei pazienti vedranno.
Vedo la gente morire , vedo la paura e la sofferenza negli occhi dei miei pazienti, il terrore di non sapere se torneranno mai a casa. Tutto questo mi fa stare male. Non ho paura di stare a casa, di non dover uscire o fare la coda al supermercato. Ho paura dell’incertezza che questo virus sta creando.
In questo momento della mia vita mi pongo tante domande : quando si tornerà alla normalità? Quando potrò svolgere il mio lavoro con l'allegria e l’entusiasmo di prima? Quando finirà la sofferenza? Quando i miei pazienti potranno tornare a casa? Quando potrò riabbracciare la mia famiglia e i miei amici che vivono lontani da me e in una regione dove la sanità non è come quella delle regioni del nord? Quando potrò tornare nella mia città? Quando potrò tornare a progettare la mia vita? A realizzare i miei sogni?
Quando ho saputo di dover lavorare con i pazienti Covid positivi ho pianto anche perché questa notizia è arrivata nel momento sbagliato, nel momento in cui io e mio marito, anche lui infermiere, avevamo deciso di volere un figlio. E adesso mi chiedo se questa sia la cosa giusta da fare in questo momento o se io debba invece rimandare ancora il mio desiderio di diventare mamma ad un altro momento, senza poter prevedere quando questo momento arriverà.
Oltre la paura in questo periodo ho rabbia . Sono arrabbiata, perché non mi sento tutelata da nessuno, perché non mi sento protetta dai dispositivi che abbiamo a disposizione, perché si rifiutano di farci il tampone nonostante siamo stati a contatto con pazienti positivi senza i giusti presidi; sono arrabbiata perché le graduatorie dei concorsi pubblici vinti non scorrono, perché gli ospedali stanno assumendo il personale mancante tramite agenzia interinale.
Penso allora che se adesso assumono personale a tempo determinato per sei mesi, la graduatoria non scorrerà per altri sei mesi. Allora mi chiedo: quando sarà il mio turno? Quando sarò chiamata anche io a firmare il mio indeterminato? Ho studiato, vivo a chilometri di distanza dalla mia famiglia, dalla mia città, ho rinunciato a tante cose per riuscire a vincere un concorso e adesso mi ritrovo ad aspettare una chiamata che non so più quando arriverà.
Quando tornerò di nuovo a sorridere? Le mie domande sono tante e purtroppo in questo momento non so quando potrò avere una risposta.
Alessandra M. - Infermiera
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