Fermate il mondo, voglio scendere! Sono solita dire quando prendo fuoco per certe follie del mondo. Caspita, ora il mondo si è fermato davvero e siamo scesi tutti. Ad un’unica fermata: Pandemia. Non ci sono più confini tra le varie terre eppure hanno chiuso le frontiere e siamo tutti confinati in casa da un imperativo hashtag stateincasa altrimenti non andràtuttobene affatto. La nostra casa è diventata il nostro mondo. Rifugio e prigione. Impensabile fino a qualche settimana fa, inimmaginabile per un mondo sempre sveglio e in movimento. Una follia, appunto, che neppure la fantasia di scrittori e complottisti poteva concepire. Non solo, il mondo è vuoto. Nascosto. In quarantena. Ha paura.
La mia pazienza di continuare a vivere in uno stato di emergenza
La gente finalmente se ne sta rinchiusa, almeno in questo angolo del mio Veneto. Escono solo sanitari, poliziotti e commercianti del buon mangiare. Presto lo capiranno anche nelle altre parti, prima che sia troppo tardi. Almeno di notte, al calar della sera, non gira nessuno. Neanche quelli con le autocertificazioni. Coprifuoco, anche se non rigido come quello cinese di Whuan.
Tutt’attorno è buio e silenzio. Un silenzio mai sentito. E se tutto il mondo è paese immagino e spero che ci sia presto il suono del silenzio ovunque. Doloroso ma necessario, per qualche mese soltanto speriamo. Solo l’assenza silenziosa può sconfiggere l’invisibile presenza.
È il rumore del nulla. Il rumore del tempo che è sospeso. Il rumore della nostra presenza che finalmente tace. La nostra unica arma di massa. Ne avevo paura le prime notti, era angosciante. Faceva piangere. Ed ho pianto mentre portavo a passeggio il cane a mezzanotte per non incontrare nessuno.
Tantomeno voglio imbattermi in questo essere virulento potente nemico che ci invade i corpi e ci mina dentro destabilizzandoci. Che ci toglie il respiro. Persino Mia abbaia al silenzio, eppure non si muove nulla che possa agitarla o farla scodinzolare felice. Percepisce la paura del contagio, la annusa. Nemmeno gli animali sono abituati al silenzio, frastornati come sono dalla nostra vita frenetica. Sono spariti tutti, anche gli uccelli della notte. Persino il vento accarezza le foglie senza farle frusciare.
Anche la natura è muta. Attonita difronte ad un virus arrivato da oriente nella stagione delle primule e che fluttua nell’aria tiepida di primavera, come fanno le goccioline di pioggia e di nebbia della pianura Padana, così duramente colpita. Da qualche giorno tacciono anche i flash mob dai balconi, i canti gli inni di Mameli le chitarre nell’ora dell’happy hour casalingo.
Soltanto le sirene delle ambulanze frantumano questo silenzio. E le campane delle chiese deserte sgretolano le ore. Ogni notte giro sconsolata lo sguardo attorno alla rotatoria che porta al viale dell’ospedale. Sembra un Day After. Non è nucleare, è virale.
Comincio stranamente ad abituarmi a queste notti silenziose. Ma ieri notte qualcosa è sottilmente cambiato. Soltanto per me. La mia solitudine è stata rotta dal rumore di zoccoli sull’asfalto appena disinfettato dal furgoncino dei netturbini. Un galoppante zampettare che mi si avvicinava da dietro, invadendo prima la corsia di destra e poi quella di sinistra. E sulle strisce pedonali un tasso si è fermato a guardarci.
Reciproci sguardi stupiti, un attimo durato l’istante di una meraviglia. Di fronte alla mia bocca spalancata e a Mia ritta su due zampe, l’animale, forse sceso dai colli Berici, si è spaventato ed è scappato di gran lena verso l’ospedale incrociando i lampeggianti di una sirena prima di scomparire alla vista. La natura ha preso possesso dei nostri luoghi del bien vivre, della movida, della vita quotidiana che abbiamo abbandonato obbedendo al decreto.
Si sta abituando al mondo senza di noi o forse le altre creature ci stanno cercando. Forse si sentono sole o forse stanno bene senza di noi. In ogni caso, dopo questo incontro, il mondo ha ripreso a girare e si è riempito di noi tre soltanto, fermi al crocevia. Non era più vuoto, eravamo in tre. Un umano e due animali, che niente potevano trasmettersi, non ci si poteva fare alcun male stando così vicini, ad un passo e non ad un metro di distanza.
E allora mi è sembrato di sentire il vento sulla guancia quando mi ha asciugato la lacrima che scendeva. E ho sentito le foglie muoversi lievemente bisbigliando in un soffio non avere paura. Come fosse la tua voce.
Sento e non vedo
Il mondo è vuoto ma lo sento. Sento il tuo incoraggiarmi, il tuo darmi forza e serenità. Il tuo sorriso dentro il telefono. Sento la musica sul giradischi. L’acqua che bolle per buttar giù la pasta. Le pagine che sfogli. L’aroma del caffè, il vapore che sbuffa dalla moka. Le tue dita sulla tastiera. L’impronta della tua testa sul cuscino. Sento e non vedo.
Sento l’ossigeno. Quello che mi riempie i polmoni quando respiro liberamente senza mascherina all’aria aperta mentre vado e torno dall’ospedale. E quello in ospedale che fa respirare tutta quella gente ricoverata nei reparti Covid.
Quello erogato con flusso lento e continuo che fa gonfiare i reservoir come palloncini ben tesi. Quello violento fatto respirare con la ventilazione forzata nei caschi della Cpap. Quello ad alto flusso erogato dai ventilatori delle Terapie Intensive con quaranta litri, così intenso da far ghiacciare le tubature e sibila come il vento. Sento e non vedo.
Sento la tua noia, i tuoi pigri sbadigli. Sento il tuo fastidio per la bruttezza dei guanti della gente per strada, la tua insofferenza alla mascherina quando esci soltanto per fare la spesa e ti vedi allo specchio i solchi lasciati sulle rughe e sulla barba brizzolata.
Sento la tua determinazione nel continuare a lavorare da casa con lo smart working, sento la preoccupazione per l’economia che non gira e per le tensioni sociali che verranno se non si riaprono le aziende e la filiera. Sento la tua leggerezza nel tenere tra le dita un soffione e le tue lacrime dietro i tuoi sorrisi. Sento la bontà della tua crema al limone. Deve avere un sapore meraviglioso. Sento e non vedo.
Sento i continui allarmi dei monitor, quando cade la frequenza, la pressione si altera mentre crolla la saturazione sotto i livelli di guardia e ai limiti della sopravvivenza. Sento l’adrenalina che sale ad ogni nuovo letto occupato e il freddo controllo dei colleghi in emergenza, sento il distacco professionale che ad un certo punto prende il sopravvento sul coinvolgimento emotivo.
Sento la stanchezza e il sudore sotto i DPI, sento le impronte della FFP3 che sfigurano i volti e gli elastici che fanno male dietro gli orecchi e stringono troppo sulla nuca. Sento le mani sudate sotto i pesanti guanti blu che devono calzare perfettamente come una seconda pelle per maneggiare con precisione fiale, tubi di raccordo, tasti, flebo, accessi venosi centrali.
Sento sei paia di braccia che all’unisono sanno posturare e mettere in pronazione corpi nudi, pesanti, incoscienti. Sento e non vedo.
Sento e non vedo i pazienti Covid. In ospedale ci siamo noi e loro. E qualche altra urgenza chirurgica. Ne sento parlare, vedo i bollettini giornalieri, leggo i referti dei tamponi naso faringei dei colleghi e dei cittadini. Li chiamo al telefono per riferire gli esiti, sentendo sospiri di sollievo. Positivi, negativi. Sintomatici, asintomatici. Prendo nota.
Vedo il coronavirus sulla carta del barcode, nei dati epidemiologici, nelle curve dei grafici che attendono il picco. Nei muri alzati dai tecnici per isolare e trasformare i reparti. Molti altri colleghi lo vedono sul campo. Intravedo qualche volta un paziente Covid uscire dalla sala Tac, accompagnato dalle infermiere dei reparti dedicati vestite con i DPI a norma.
Ieri ne ho visto uno, un uomo sulla sessantina. Respirava, ma piangeva come un bambino. Aveva paura. Aveva sentito la diagnosi. Sento i tuoi giorni uguali ai giorni, il tuo capire la gravità della situazione, la tua impazienza di tornare alla normalità, la tua voglia di creare, di parlare. Di tornare a vivere.
Sento i miei giorni non uguali ai giorni di prima, la mia pazienza di continuare a vivere in uno stato di emergenza, la mia voglia di amare e pensare. Di andare e basta. Il resto del mondo è vuoto ma noi sentiamo. Il mondo è pieno di noi. Io da una parte, tu dall’altra. Io fuori, tu dentro.
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