Human Caring, la differenza fra curare e prendersi cura
All’inizio della mia carriera universitaria ero innamorato di un’ideologia: aiutare gli altri. Col passare delle lezioni, assimilando nozioni, conoscendo esperienze altrui e comprendendo quanto fosse importante la teoria applicandola nei vari tirocini, durante il mio percorso mi sono posto numerosi quesiti approfondendo sempre più il mio primo concetto. L’infermiere viene messo costantemente sotto pressione su più fronti e spesso, purtroppo, mi è capitato di notare nei vari tirocini, forse implementata dalla costante riduzione del bilancio sanitario, un allontanamento umano da parte del professionista verso il paziente. Già dalle prime lezioni rimasi molto colpito dalla sostanziale differenza tra due verbi inglesi che foneticamente e graficamente erano molto simili, cioè “to cure” e “to care”. Traducendo il loro significato in italiano infatti “to cure”, significa curare, mentre “to care” prendersi cura, preoccuparsi per.
La patologia è spesso vissuta come una minaccia alla propria integrità personale e alla propria dignità di essere umano; il contesto ospedaliero può portare il paziente a sentirsi solo un numero tra i tanti degenti di un reparto. Secondo Jean Watson l'ambiente fa la differenza. L'ambiente non è inteso come ambiente fisico, Watson identifica l'ambiente con l'infermiere: l'infermiere è l'ambiente. La relazione infermiere-paziente è fondamentale affinché l'assistito non perda mai la percezione di essere una persona. L'infermiere deve sviluppare la consapevolezza di quanto sia importante l'erogazione di un “caring” umano per il processo di guarigione del paziente.
Il “caring” affonda le sue radici su un terreno che si nutre di altruismo, di impegno e di soddisfazione, di ricevere attraverso il dare: secondo Watson, una persona adulta, a un certo punto della sua vita, sceglie di intraprendere la professione infermieristica spinta dalla maturazione interiore di valori umanistici.
Ma cosa significa rendere umani gli interventi di assistenza infermieristica? Come facciamo a essere bravi professionisti senza tralasciare l’aiuto verso gli altri? Cosa ne pensano gli studenti?
Ho notato che la percezione riguardo lo human caring da parte degli studenti infermieri nelle varie località del mondo è diversificata e le motivazioni profonde che spingono alla scelta di svolgere una professione di cura sono molteplici.
Lo human caring nel mondo
In Norvegia, in uno studio effettuato dal Telemark University College nel 2012, si è notato che lo studente ha un approccio pragmatico e materialista verso la professione infermieristica e sceglie questa carriera a causa di ricompense quali sicurezza di un lavoro con un buon reddito. In Australia invece, l'University of Western Sydney analizzando un campione di quasi 500 studenti nel 2013, notò che la maggior parte degli studenti dichiarano di guardare programmi televisivi medici e hanno riconosciuto in essi un valore educativo e molti di loro si sono avvicinati a una professione di cura.
Sempre in Australia nella School of Medicine, The University of Queensland i risultati hanno mostrato che il pensiero dello studente riguardo la scelta di una professione di cura sia quello di non dimenticare che l’individuo deve avere come impulso principale per fare l’infermiere quello di voler prendersi cura degli altri, gli studenti suggeriscono persone con una natura premurosa. A Washington l’Auburn University Montgomery School of Nursing, nel 2011, attraverso un giornalista esterno, sfidò gli studenti ad abbandonare l’immagine di infermieri visti come angeli, promuovendo l’immagine di infermieri professionisti competenti ben informati e attenti. Questo scaturì da parte degli studenti emozioni contrastanti, soprattutto rabbia. Gli studenti di questa facoltà riconoscono una necessità di competenza, ma dichiarano l’importanza di valori di cura, in particolare l’altruismo. Molto interessante fu lo studio comparativo condotto tra il 2013 e il 2014 da quattro paesi (Nigeria, India, Grecia e le Filippine). Gli studenti infermieri dei quattro paesi, hanno come riferimento il desiderio di curare e mostrano una sensibilità alla sofferenza.
Un certo rilievo viene però anche attribuito a motivazioni di sicurezza nel trovare lavoro o il proseguire una tradizione familiare. Gli studenti inoltre, affermano di non riuscire ad adattare i loro caratteri nelle diverse situazioni cliniche.
Ma cosa ne pensano gli studenti della realtà di Pesaro? Ho condotto uno studio sperimentale di tipo qualitativo. L’indagine prospettica consiste nel comparare la visione dello studente di Infermieristica presso l’Università Politecnica delle Marche polo di Pesaro riguardo lo human caring. Gli obiettivi prefissati erano quelli di comprendere:
- Le motivazioni profonde che spingono alla scelta di svolgere una professione di cura
- Indagare con quali strumenti gli studenti infermieri si propongono di mantenere e sviluppare i processi di cura
- Se vi è un cambiamento motivazionale ed emotivo nell’arco del triennio
Il campione è formato da 192 studenti regolarmente iscritti al corso di laurea in Infermieristica di Pesaro nell’anno accademico 2015/2016. I questionari riconsegnati ed analizzati sono stati 133.
Ebbene è emerso che la volontà di aiutare coloro che sono in uno stato di bisogno è la motivazione che spinge la gran parte degli studenti a scegliere di svolgere una professione di cura anche se, in alcuni casi, la spinta verso l’assistenza scaturisce da una vicenda personale o un’esperienza familiare vissuta. Accanto ad essa, la voglia di sentirsi utili, una predisposizione caratteriale e la passione sono altri fattori che accomunano gli studenti di tutti e tre gli anni di corso. Emergono però sostanziali differenze. Sembra, dal campione osservato, che ci sia un cambiamento sostanziale tra gli studenti del primo anno di corso a quelli del terzo, c’è una sensazione di allontanamento nei confronti del paziente, una volta acquisite conoscenze specifiche. Queste ultime portano il laureando ad avere maggiore consapevolezza dei propri mezzi, maggiore sicurezza e voglia di garantire un’assistenza appropriata, quasi con la presunzione di poter far meglio rispetto quello che hanno visto fare dai professionisti nei vari tirocini.
Il principio di “fare il bene” alla persona bisognosa, i valori quali la solidarietà, la vita, la salute e l’amore provato verso il prossimo diminuiscono durante gli anni di frequenza universitaria. In egual modo, mentre le matricole dichiarano di voler sostenere ed alimentare la loro consapevolezza nel prendersi cura degli altri attraverso la gratitudine umana, il piacere di vedere qualche ricco grazie di riconoscenza, ai laureandi quest’aspetto non interessa, il giovane infermiere crede nella formazione e nell’ulteriore acquisizione di conoscenze. Inoltre, mentre gli studenti del primo anno dichiarano in alcuni casi di aver scelto questo percorso perché spinti da familiari e genitori, al secondo anno nello studente nascono dei dubbi e spesso dichiara di aver bisogno di tempo e riflessione, fino ad arrivare al terzo anno dove lo studente nel ben 20% dei casi non sa come farà ad alimentare la propria consapevolezza di cura verso il prossimo.
Si denota una difficoltà nel creare un valido legame comunicativo col paziente, non solo dal punto di vista verbale, soprattutto per cause linguistiche o culturali, ma a volte anche comportamentale, e questa problematica tende ad aumentare negli anni.
Esiste una abissale differenza tra il “fare l'infermiere” ed “essere infermiere”: essere infermiere prevede qualcosa di più che la mera esecuzione di prestazioni volte al soddisfacimento dei bisogni della persona malata; essere infermiere implica la capacità di vedere l'umanità dell'altro con amore e apprezzare la diversità e l'individualità di ciascun essere umano.
Esiste quindi una distanza da colmare tra ciò che i giovani infermieri vorrebbero fare e ciò che invece gli è possibile fare nel contesto in cui operano. Lo studente infermiere sembra arrivare al terzo anno confuso, stordito da ciò che ha visto, distaccato, ripudia le fragilità altrui. Questa percezione di disillusione può avere due effetti opposti sugli studenti: da un lato il rifiuto di questa disillusione per mantenere un’etica del caring, dall’altro la sua accettazione come strategia di auto-protezione dall’esaurimento emotivo.
Quella voglia di voler fare il “bene” all’altro sembra diventare, “so io quello che bisogna fare per farlo star bene perché ho studiato”.
Tutti quegli atteggiamenti caring che dovranno essere utilizzati con il paziente, lo studente infermiere dovrà metterli in atto prima di tutto con se stesso: ascolto, empatia, accettazione e rispetto. Dopodiché sarà l’esperienza stessa a trasformare lo studente infermiere, con il suo bagaglio tecnico e le sue qualità personali, in un infermiere professionista che applica caring consapevolmente.
Gabriele Spinelli, infermiere neolaureato
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