Indagando il coinvolgimento degli infermieri di terapia intensiva nel contesto di "fine vita" si è registrato un netto cambiamento rispetto alla marginalità del passato: oggi l’infermiere traduce le volontà del paziente ai familiari, ai medici. Accompagna i parenti verso l’accettazione della morte del malato, li aiuta a comprendere le scelte terapeutiche, fotografa la realtà dei fatti mostrandola loro.
Coinvolgimento degli infermieri nel fine vita: i dati di ieri
Alcuni anni fa tenni una relazione ad un congresso Aniarti. Il tema dell’evento riguardava il fine vita. La mia relazione indagò il coinvolgimento degli infermieri nella decisione di limitare i trattamenti intensivi di fronte ad una condizione irreversibile.
La ricerca partì da uno studio realizzato dal Gruppo italiano valutazione interventi terapia intensiva (GIVITI), con sede presso l’istituto Mario Negri di Bergamo.
L’indagine riguardava:
- la partecipazione dei pazienti alle decisioni e loro consenso alle cure;
- le decisioni terapeutiche nei pazienti che poi decedono nelle terapie intensive;
- il coinvolgimento dei familiari;
- le problematiche relative alla donazione di organi.
I dati raccolti includevano 3782 pazienti in 84 terapie intensive. Oltre l’80% dei pazienti studiati venivano considerati non in grado di esprimere un consenso valido al piano di cure al momento dell’ammissione in terapia intensiva. Solo nell’8% dei casi era disponibile una testimonianza formale ed anticipata delle proprie volontà.
All’ammissione nei reparti di area critica, oltre il 90% dei pazienti, riceveva una terapia “piena” con tutti i trattamenti intensivi disponibili, mentre solo nell’8% dei casi si assisteva ad una limitazione di uno o più trattamenti.
Relativamente alla volontà espressa dal paziente, solo nel 7% dei casi erano disponibili precedenti indicazioni espresse dal paziente o testimonianze dei familiari, anche se queste non erano espresse in modo formale e in assenza di disposizioni di leggi specifiche.
Infine, solo l’8% dei pazienti, al momento del ricovero, sottoscrivevano il consenso informato alle cure intensive.
L’obiettivo finale della mia ricerca era rappresentato dal coinvolgimento degli infermieri nei confronti del fine vita in senso lato. Tale coinvolgimento, in conclusione del mio studio, risultò essere davvero marginale:
La collegialità di queste decisioni e il coinvolgimento degli infermieri, se pure auspicabile, è incostante Comunicato stampa GIVITI (2006)
A distanza di alcuni anni ho deciso di riprendere l’argomento, alla luce della nuova bozza del Codice Deontologico, il quale dedica un intero capo proprio al Fine Vita (Capo IV). Nello specifico, la bozza prevede 3 articoli (26-27-28) i quali abbracciano il delicato ambito del termine della vita.
I dati di oggi
Ho effettuato così una nuova ricerca con l’obiettivo di indagare il punto di vista degli infermieri su questo delicato e scivoloso tema.
Già nelle conclusioni della suddetta relazione, era chiaro lo scarso coinvolgimento degli infermieri rispetto alle scelte di “sospendere” o “intensificare” i trattamenti nei confronti di pazienti dalla prognosi infausta.
Allo stesso tempo - paradossalmente - quelle poche esperienze di pieno coinvolgimento degli infermieri, riportavano outcome positivi.
Uno studio condotto dal Cancer Nursing in Olanda aveva l’obiettivo di indagare il punto di vista degli infermieri che partecipavano alle cure palliative sul loro ruolo nel processo decisionale. Analizzando i questionari si è visto che il 62% del personale infermieristico parlava con i pazienti e le loro famiglie riguardo la limitazione dei trattamenti e tre quarti degli infermieri erano stati coinvolti nelle decisioni di fine vita.
In uno studio descrittivo che utilizzava un questionario sulla soddisfazione dei familiari di pazienti ricoverati in terapie intensive dell’Irlanda si evidenziò un più alto grado di soddisfazione dei parenti con gli infermieri piuttosto che con i medici.
Questi risultati sottolineano l’importanza del coinvolgimento degli infermieri nella comunicazione. In particolare quando i pazienti si stanno avvicinando alla morte gli operatori sanitari comunicano maggiormente con i familiari, utilizzando un linguaggio semplice, comprensibile, in grado di aiutare i parenti ad affrontare la futura perdita.
Forse, però, l’aspetto maggiormente rappresentativo della centralità dell’infermiere, ce lo restituisce uno studio del 2011, “Nursing Roles and Strategies in End of Life Decision Making in Acute Care: A Systematic Review of the Literature” (Judith A. Adams, Donald E. Bailey Jr., Ruth A. Anderson, and Sharron L. Docherty. Nursing Research and Practice).
A quanto pare, rispetto allo studio che condussi nel 2009, oggi lo scenario è radicalmente cambiato. L’infermiere traduce le volontà del paziente ai familiari, ai medici. Accompagna i parenti verso l’accettazione della morte del malato; li aiuta a comprendere le scelte terapeutiche, fotografa la realtà dei fatti mostrandola loro.
In un’intervista un’infermiera ha dichiarato che i membri della famiglia venivano coinvolti nelle cure quotidiane (come l’aspirazione tracheale) e venivano mostrate loro anche le lesioni da pressione, nel tentativo di evidenziare i disagi che il paziente stava vivendo.
Altre fonti bibliografiche suggeriscono che quando gli infermieri riescono a spiegare la prognosi e l’evoluzione irreversibile della malattia ai familiari di un paziente “morente”, i parenti stessi sono in grado di prendere decisioni adeguate, nel rispetto della volontà del malato.
Recentemente anche l’American Nurses Association (ANA) ha pubblicato una Position Statement (Stati Uniti 2016), nella quale ribadisce il ruolo centrale del paziente, con accanto l’infermiere, risorsa a sostegno dei malati e dei familiari, in grado di contribuire nelle decisioni legate al fine vita, rispettando l’autonomia del paziente.
È quindi possibile affermare che, a distanza di alcuni anni, il ruolo dell’infermiere si è aggiornato, avvicinandosi sempre di più a quella che è la sua naturale allocazione: accanto al paziente, in grado di esportare le sue decisioni, aiutando i familiari ad accettare quelle decisioni e, non da ultimo, collaborando con il medico nel processo decisionale clinico.
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