Oggi rientro in ospedale dopo una pausa di qualche mese, ho continuato a lavorare in maniera intensa a livello fisico, mentale ed emotivo a casa imparando il mestiere più istintivo e al contempo difficile del mondo: fare la mamma.
La storia della mamma infermiera che rientra in azienda
Mentre salgo in macchina mi rendo conto di non aver voglia, solo l’idea di dover portare quei fogli riguardanti il congedo parentale agli uffici amministrativi mi pesa, mi sembra tempo sprecato, come se fossi stata momentaneamente strappata a quella dolce creatura che ha appena imparato a dire “ma-mma”. Invece no, non è così. Appena arrivo mi avvicino a quella struttura imponente, immersa nel verde e inizio a provare una sensazione di familiarità.
Parcheggio, scendo dalla macchina e cammino lungo i viali alberati che circondano l’ospedale, o meglio l’Azienda ospedaliera universitaria. Ecco, l’Azienda, quando penso ai termini aziendali e alla gestione delle risorse umane all’interno delle “logiche aziendali”, che tanto mi ricordano l’asetticità dei numeri, sento un po’ dissolversi quell’aria di familiarità.
Entro dentro, valico l’entrata principale e mi domando se incontrerò in questo breve tragitto che mi separa dal corridoio degli uffici qualche collega, qualche amico. Non incontro nessuno e nemmeno mi metto a cercarlo, so quello che devo fare e cerco di farlo in fretta, le mie tempistiche di mamma non mi permettono sgarri al di fuori della tabella di marcia che mi sono prefissata. Dopo pochi passi mi rendo conto che inizio a sentire una strana sensazione, mi sento “quasi” felice di essere all’interno di quel gigantesco spazio, luminoso grazie alle grandi vetrate che lo attorniano, disordinato, pieno di persone in tutte le direzioni, alcune confuse davanti al gigantesco cartellone stradale con le vie dei reparti, altre che procedono a passo spedito verso l’uscita, chissà cosa hanno visto, sentito, provato, cosa hanno lasciato dietro di sé, probabilmente un parente e si trascinano impresso nel volto la scia della loro preoccupazione.
Scruto i sanitari in cui mi imbatto mentre cammino (infermieri, medici, oss, tecnici, ecc …), qualcuno cammina con apparente rilassatezza verso un dovere che lo attende, ma che in fondo sa non essere così urgente, altri compiono delle falcate così lunghe e rapide da schivare le altre persone come birilli con l’improcrastinabilità impressa nelle rughe della fronte.
Mi guardo intorno e mi rendo conto che noi siamo cittadini di quella città, abitanti di quel microcosmo che ci accoglie ogni giorno nel bene e nel male. Noi sanitari abitiamo in maniera stabile e continuativa quel luogo, vantiamo una lunga residenza di ore e ore che ci portiamo dietro
Quel luogo è a tutti gli effetti una seconda casa, quante ore vi trascorriamo? Troppe, probabilmente molte più che a casa nostra, quanti pensieri, discussioni, soddisfazioni, delusioni, risate, pianti viviamo al suo interno? Troppi. Quanti pasti vi consumiamo seduti ad una tavola, ogni giorno diversa, ma al contempo sempre uguale, con persone vestite più o meno come noi ma solo con colori diversi? Troppi. In fondo noi arriviamo, parcheggiamo, tiriamo fuori delle chiavi per aprire delle porte, saliamo delle scale o prendiamo un ascensore, percorriamo corridoi, ci fermiamo davanti ad un armadio, ci svestiamo, indossiamo una divisa (anche abbastanza comoda e semplice nella sua vestibilità, una tuta?) e degli zoccoli (delle ciabatte? Spesso a casa abbiamo anche un modello identico a quello che utilizziamo al lavoro). Subito dopo ci laviamo le mani, usciamo da quella stanza per entrare in un’altra, dove ad attenderci troviamo quasi sempre qualcuno esitante e contento di vederci, non vedeva l’ora di poter fare quattro chiacchiere con noi e raccontarci la sua storia quotidiana, la sua “consegna”. Questo “rituale” non è lo stesso che replichiamo ogni giorno, inconsciamente e routinariamente nelle nostre case? Poco dopo si sente arrivare il profumo di caffè a qualsiasi ora, giorno o notte che sia e qualcuno che urla “è pronto”.
Come a casa. Già l’ospedale è una grande casa, o meglio un grosso condominio, con tanti appartamenti, i nostri reparti, e tanti abitanti, coinquilini di uno stesso spazio di tutti e di nessuno, ma sempre pieno di ospiti più o meno contenti di transitare sotto le nostre mani e attenzioni.
In venti metri, che mi separano dal corridoio che devo attraversare, provo tutte queste sensazioni e respiro un’aria di seconda casa, mi era quasi mancata, quel trambusto, quel vociferare continuo, forse avrei tralasciato solo l’odore di antisettico ed umanità. Mi sento parte di quest’altra casa, di quest’altra famiglia e anche se ogni giorno ci ripetiamo, quasi a scusarci e difenderci, che la nostra vita è fuori da lì, fuori dal lavoro, fuori da quel posto che tanto ci fa stancare ad orari e costi (in termini di sacrifici familiari, sociali, individuali) improponibili a qualsiasi altra persona degna di buon senso, in realtà gran parte della nostra vita è lì, che ci piaccia o meno.
Quell’ambiente ci ha contaminato in tutto, nel modo di fare, essere e ragionare, ci ha plagiato inconsciamente e ha impresso dentro di noi dei marchi indelebili. Cieco verso se stesso è chi lo nega. La verità è che abbiamo sposato questi luoghi con un grande entusiasmo iniziale di appartenere ad una nuova categoria, (quella professionale, ma al contempo anche umana), che oggi cerchiamo di continuare a tollerare con tutti i suoi pregi e i suoi difetti e a sanare le falle del sistema che ogni giorno incontriamo, esattamente come facciamo nelle nostre case, alle volte con un’enfasi e un’energia tali da non riuscire a dedicare più altro alle nostre famiglie al rientro.
Finché morte o pensione non ci separi
Quanto ci condiziona la vita e il modo di essere la nostra professione e il luogo in cui la esplichiamo? Tantissimo, più di quanto riusciamo ad immaginare e a renderci realmente conto. Mi sento fiera di essere una parte di quell’ingranaggio di quel complesso ecosistema. Torno a casa con una consapevolezza in più, anche oggi il mio lavoro mi ha insegnato qualcosa.
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