Quella infermieristica è una professione che offre infiniti spunti di riflessione. Uno fra questi è la linea sottile che separa l’essere infermiere dal farlo in maniera quasi meccanica. Tina, collega infermiera, ci spiega la sua visione della questione.
Essere infermiere o lavorare in qualità di infermiere?
Da sempre la differenza mi era nota. Se si sceglie di entrare nel mondo dell’assistenza lo si fa con tutte le scarpe, non solo per la durata di un turno.
Durante i miei studi universitari ero impregnata di amore verso l’infermieristica, perché mi rendeva fiera di me: stare accanto a chi soffre, aiutarlo, relazionarsi a lui e sollevarlo, con la forza della comunicazione e delle cure. Pensavo che tutto questo mi avrebbe inorgoglito sempre più con il tempo
E poi, finalmente, sono entrata nel mondo del lavoro. Da passione è diventata professione. Mi ci sono buttata a capofitto. Ma le difficoltà di giorno in giorno incrementavano sempre più.
Durante i tre anni di università i temi all’ordine del giorno erano: autonomia professionale, padronanza della comunicazione, uso dell’empatia; tutte abilità atte ad entrare nella vita dei nostri assistiti con rispetto, avvicinandoti al loro dolore, così tanto da sentirlo tuo.
Questi sono stati gli insegnamenti che più tenevo presente durante le mie prime giornate di lavoro. Ma ad ogni turno mi sembrava sempre più di sprofondare nelle sabbie mobili, perché quella sofferenza fa male.
Nessuno ci forma e ci munisce degli strumenti necessari per avvicinarci così tanto a quel dolore costante. Quindi finisci per bruciarti con quel fuoco di angoscia. E la sfida si fa sempre più dura, perché la tua professione ti chiede di svolgere attività differenti.
Sei responsabile di assistenza generale infermieristica nell’ambito tecnico, relazionale e educativo, di compensare le carenze e i disservizi che possono eccezionalmente verificarsi nella struttura in cui operi; di identificare i bisogni di assistenza infermieristica del singolo e della collettività, di formulare i relativi obiettivi e pianificare, gestire e valutare l’idoneo intervento infermieristico.
Il tutto in una manciata di ore: dal momento in cui il tuo badge determina l’inizio del tuo turno, fino alla fine dello stesso. Ed è così che da essere infermiere, in breve tempo, si passa a fare l’infermiere.
Mi spiego meglio: da essere professionista, cioè persona che svolge la propria attività con competenza ed efficienza, si passa a svolgere la propria professione, cioè svolgere attività in modo continuativo a scopo di guadagno. Questo perché non abbiamo gli strumenti adeguati e non parlo di presidi tipici del mestiere, ma di dispositivi di protezione individuale, di protezione della nostra personalità.
In un turno di lavoro medio, in pronto soccorso, dovrai assistere un trauma cranico, una paziente con Alzheimer in stato confusionale, un sospetto infarto del miocardio, un bimbo con la febbre e un cirrotico, in fase terminale, che respira per l’ultima volta lì, davanti a te.
Mentre tu a malapena hai avuto il tempo di conoscere il tizio del trauma cranico, di farti spiegare la dinamica dell’accaduto e tranquillizzare i suoi parenti. Il tutto mentre il turno di lavoro si allunga in maniera inversamente proporzionale all’organico in dotazione. E lavori come un automa, perché non hai tempo e sei sola.
Ci raccontiamo di aver paura di lasciarci attraversare dalle emozioni, paura di non farcela, di farci continuamente male di fronte a un genitore in lacrime perché il suo bambino deve essere sottoposto ad un prelievo ematico, a un genitore che piange perché resterà su questa terra più a lungo di suo figlio.
Ma la verità è che non abbiamo dei dispositivi di protezione individuali: non abbiamo tempo per metabolizzare, né strumenti per farlo, come un’educazione adeguata al lavoro in équipe, riconoscimento sociale della professione
Con tutte queste carenze l’autenticità, la disponibilità, l’onestà, l’empatia, la responsabilità, la maturità resteranno solo definizioni di fattori intrinseci ed estrinseci della professionalità e non strumenti o metodi da mettere in pratica quotidianamente per difenderci, per assistere con qualità, per dimostrare la nostra professionalità.
Io credo nella nostra professione, credo nella capacità di alleviare quella sofferenza, di assistere. Ma credo che senza una zappa e dei semi il coltivatore non può far di certo nascere una pianta e che se noi lavoriamo senza degli strumenti che ci aiutino a capire le emozioni del prossimo, ad affrontarle e a gestirle, non riusciremo a far sbocciare nessun fiore.
Siamo i responsabili dell’assistenza tecnica, relazionale ed educativa e di questa forse siamo preparati per un terzo. Le nostre conoscenze ed abilità tecniche ci fanno sentire quasi eroi: quanta soddisfazione nell’aver preso una vena, eseguito correttamente un'emogasanalisi.
Penso a quanta soddisfazione ci darebbe aver comunicato adeguatamente con un paziente, aver instaurato una relazione efficace, che produca risultati in termini di salute e di soddisfazione del paziente e della sua famiglia.
Allora muniamoci di nuovi strumenti che ci permettano di essere infermieri e di acquisire i restanti due terzi della nostra professionalità.
Tina, Infermiera
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