Io, infermiere, decisi di non trattarla da malata
mano paziente nel letto ricoverata
Ricordo ancora quel giorno, era il 14 febbraio del 2012 quando accompagnai mia madre di 55 anni, vedova da meno di due, alla visita pneumologica dopo aver fatto già alcuni accertamenti.
Mentre sei seduto nella sala d’aspetto attendendo di entrare, pensi a tutte le storie delle persone che sono sedute lì con te e soprattutto alle storie che improvvisamente possono cambiare, una volta usciti dalla porta di quell’ambulatorio. Come la nostra storia, che cambiò proprio all’uscita da quella porta.
L’immagine che ricordo nitidamente è quella di una clessidra, una clessidra nemmeno tanto grande con la sua sabbia che inesorabilmente scende senza fare sconti e senza rallentare .
Scelsi di vivere con consapevolezza e senza finzioni quella nuova condizione. Nessun inganno, nessuna mezza verità , così da permettere a mia madre, nel pieno delle sue facoltà mentali e in piena energia fisica, di vivere quel periodo della propria vita come lo ritenesse opportuno. Del resto, era la sua vita.
Decisi di non trattarla da malata , ma di accompagnarla guardandola a vista come quando lei mi insegnò ad andare in bicicletta: senza ostacolarmi, senza aggiustare il tiro, ma sempre pronta a prendermi prima che potessi cadere e farmi male. Difficile però capire come esserci senza far percepire la presenza.
Una donna autonoma, orgogliosa, indipendente e testarda, ma anche piena di paure: una a cui il solo pensiero di far preoccupare i figli faceva star male più della malattia stessa. Cominciarono le terapie e le prime difficoltà: chiedermi aiuto era quasi impensabile per lei , ma in qualche modo sono sempre riuscito ad anticiparla e ad attutire il colpo senza troppo clamore.
Il nostro non è mai stato un rapporto fisicamente tenero , anzi a volte anche un po’ glaciale, ma questo è quello che si definirebbe “l’evidenza”, poiché l’amore vive in mille forme che spesso non sono le convenzionali .
A volte mi chiedevo se fosse veramente malata ; certi giorni aveva un’energia, una voglia di vivere che avrebbero fatto invidia a cento scout. Mia madre decise di togliersi degli sfizi. Diceva: “Ho lavorato tanto nella mia vita, è questo il momento più giusto per godermi il frutto delle mie fatiche”. Non potevo che essere d’accordo ed ecco che è nata quella rara complicità tra madre e figlio che stanno per combinare una marachella.
Ma non è stato sempre tutto così semplice: ricordo con molta emozione l’esperienza della caduta dei capelli . Un “must” per questo tipo di malattia.
Le fotografie e il coraggio di mettersi a nudo
C’era quella parrucca pronta ad aspettarla , una parrucca tutto sommato ben fatta che assomigliava tantissimo ai suoi capelli, ma che non le apparteneva. Con quella parrucca indosso non sarebbe stata lei e la cosa non la faceva sentire a suo agio. Si sentiva cambiare dentro, si vedeva trasformare fuori , perdendo la propria identità di Donna.
Decisi allora di proporle un esperimento : le proposi di documentare fotograficamente il momento del taglio dei capelli ormai sfiniti. Glielo proposi con la scusa di presentare queste immagini ad una mostra fotografica, essendo io un fotografo amatoriale. Dapprima mi disse di no, ma alla fine cedette e acconsentì.
Al di là delle foto di cui mi interessava relativamente, riuscii a farle condividere con me un momento così tanto delicato e doloroso . Gli scatti ottenuti rivelano non poche emozioni. Al termine della tonsura la feci truccare, vestire con uno dei vestiti che a lei piacevano di più e completai il lavoro scattandole delle foto con la sua nuova bella testolina rasata .
Ottenuto (ancora una volta non senza fatica) il suo consenso, pubblicai alcune di queste foto sul suo profilo Facebook. Le foto ebbero un successo inimmaginabile: ricevette tantissimi “mi piace”, ma anche tantissimi messaggi di solidarietà, di coraggio, tantissimi messaggi di persone che erano nella sua stessa condizione e che la stimavano per il coraggio di essersi messa a nudo .
Capì che in quella testolina rasata non c’era nulla di brutto, anzi probabilmente le apparteneva molto più di quella parrucca che non uscì mai più dalla sua scatola.
La clessidra continuava a scorrere inesorabile
La clessidra continuava a scorrere inesorabile, l’energia lasciava sempre più spazio a qualche momento di sconforto e tante sere la vedevo nella sua camera con una foto di mio padre in mano e con gli occhi lucidi; sembrava gli dicesse: “Aspettami ancora un po’…”
Anche la quotidianità diventava sempre più difficile: tenere pulita e ordinata la casa, lavare, stirare, cucinare erano “mestieri” ai quali difficilmente avrebbe rinunciato. Non voleva che io dedicassi il mio tempo libero alle faccende di casa, non voleva persone che l’aiutassero, decisi allora di aiutarla acquistando un robot da cucina, uno di quelli multifunzione, e il robot per la pulizia dei pavimenti.
Il giusto compromesso per poterle permettere di contribuire alle faccende domestiche in base alle sue possibilità. Potrebbe sembrare una sciocchezza, ma la soddisfazione che aveva nel mettere quel robot sul pavimento di ogni stanza per pulire la rendeva serena .
Occuparsi semplicemente del nostro cane mentre ero al lavoro, stirarmi una camicia che non avrei mai messo, prepararmi con il robot da cucina (cosa che fino a qualche mese prima avrebbe fatto a mano) l’impasto per le tagliatelle che poi avrei steso io con il mattarello erano quei piccoli ma straordinari di gesti che le permettevano di sentirsi ancora capace e ancora viva .
Quanta intimità, quanta fiducia in ogni singolo gesto
Arrivo però quel giorno dove tutto precipita: un ricovero improvviso, una prognosi breve ed infausta. Ma lei mi disse: “Sono stanca, ma non è ancora il momento”. Decisi allora di usufruire dell’aspettativa , mi sospesi dal lavoro per potermi prendere cura di lei in maniera totale.
Questa volta non si oppose, perché forse capì che sarebbe stata la cosa che più mi avrebbe reso felice in quel periodo. Sempre meno granelli di sabbia, sempre meno tempo .
Diventai il suo infermiere, il suo cuoco, il suo parrucchiere, il suo pedicure. In realtà ero semplicemente Suo Figlio .
Quei mesi in cui mi sono dedicato i completamente a lei seppur difficili e pieni di dolore sono stati i più belli. Svegliarmi nel cuore della notte per controllare che dormisse e respirasse bene, abbracciarla e prenderla di peso per spostarla dal letto alla sedia, lavarla, spalmarle la crema, pettinarle i capelli ormai ricresciuti, la gestione della terapia del dolore, del Picc. Quanta intimità, quanta fiducia in ogni singolo gesto. Ricordo che un giorno mi chiese di portarla dalla parrucchiera, non riusciva più a vedersi così “in disordine”.
Non fu una cosa facile: camminava pochissimo, aveva bisogno dell’ossigeno. La parrucchiera fu bravissima: in pochissimo tempo le sistemò i capelli come voleva, le fece le sopracciglia e le tolse i baffetti, le fece le mani e i piedi. Per finire le mise anche un filo di trucco.
Al termine disse rivolgendosi a me e alla parrucchiera:
Sono pronta. Adesso Posso andare
Una frase che ci lasciò di stucco, sebbene fosse stata detta senza malizia. Tornando a casa mi chiese di fermarci a mangiare un hamburger, percheé era da tanto che non ne mangiava uno.
Nel pomeriggio del giorno successivo chiese a mia sorella di venirla a trovare portando i nipoti, voleva mostrarle il nuovo look. Mentre eravamo a cena mi chiese di prepararla, perché sarebbe voluta andare al cinema. Guardai perplesso anche mia sorella, cosciente del fatto che la morfina poteva farla vaneggiare . Decisi comunque di assecondarla e accompagnata in camera la rinfrescai e cominciai a pettinarla, a quel punto mi disse: “Adesso però prima voglio riposare un po’”. La adagiai a letto e spensi la luce .
Da quel momento perse completamente conoscenza e iniziarono tre giorni piuttosto difficili. Nella testa ti passano mille pensieri, ma soprattutto uno non mi dava tregua: parlando della malattia mia madre mi diceva che aveva paura del dolore, della sofferenza fisica e che se l’avessi vista soffrire le avrei dovuto fare una “iniezione magica ” che la facesse smettere di stare male.
Non ho smesso di accudirla un solo secondo supportato in questi ultimi giorni anche da mia sorella ed alcuni familiari e dall’assistenza domiciliare oncologica. Una sera - che poi fu l’ultima sera - mi feci il regalo più bello: dopo averla sistemata per la notte mi stesi a letto con lei e il nostro cane fra noi. Era da quando ero piccolo che non dormivamo insieme.
Dormii poco, a dire il vero, ma nell’abbraccio di quella notte si concluse l’esperienza più bella della mia vita.
Ppt85
1 commenti
Testimonianza esemplare di Un figlio che tutti vorrebbero avere...
#1
Caro marco, mi fai ripercorrere un tratto del percorso di mia mamma, che è stata più fortunata, e che riporta alla mente quanto un figlio in quelle situazioni cerca di esser l'assistente di un malato che si chiama Mamma, la cosa più bella al mondo.. Fatto con consapevolezza e responsabilità, dignità per una per una persona che ci ha sempre amato e non sempre lo abbiamo magari capito... Messo il lavoro da parte, magari pure la famiglia, per la mamma... La tua testimonianza è un inno alla vita.... È il desiderio e morale di ogni singolo figlio che guardano alla prima donna della loro vita :la mamma... Marco ti porterò come esempio in futuro... Ti mando un grosso abbraccio e buona fortuna... Pier Paolo