ROMA. Sono numerose le professioni sanitarie che celebrano il ventennale della pubblicazione dei loro profili professionali. Sono venti anni di impegno per la crescita professionale e del livello e della qualità dell’assistenza. Ora però c'è il rischio non solo di una stasi ma anche di un crollo rovinoso per l’organizzazione sanitaria nel suo insieme e per i livelli dell’assistenza.
Si deve agire nel presente guardando al futuro, anche a quello prossimo.
Invece di parlare di ulteriore fase evolutiva di quelle che sono state dal 1994 un fiore all’occhiello della sanità pubblica e un motore per l’assistenza ai cittadini, si parla di tagli ulteriori, ancora di blocco dei contratti e di una possibile riduzione della spesa sanitaria complessiva, nonostante le Regioni abbiano lasciato sul campo della spending review negli ultimi cinque anni circa 30 miliardi dedicati al servizio sanitario pubblico.
Rimangono sullo sfondo la riorganizzazione dei servizi e del lavoro, la ridefinizione dei perimetri professionali, il freno all'abusivismo, il ricambio generazionale, il superamento del precariato. La ricetta per una parte di questi problemi sta nella creazione di Albi e Ordini, per l'altra in un maggior coinvolgimento dei professionisti nella gestione della sanità oggi gestita solo dalla "cassa".
E siamo al paradosso: la Federazione Ipasvi denuncia ormai da oltre sei anni la carenza di infermieri secondo le medie internazionali: ne mancherebbero almeno 60mila, ma il fabbisogno minimo ulteriore per il Ssn non può scendere sotto i 18-20mila, anche considerando lo sviluppo dell’assistenza sul territorio (ospedali di comunità) e il nuovo volto dell’ospedale (per intensità di cura e complessità assistenziale e non più per singole specialità mediche).
Invece assistiamo al blocco del turn over obbligatorio nelle Regioni in difficoltà economiche per i disavanzi e quello “di fatto” nelle altre Regioni che, stordite dalla riduzione di spesa, usano il personale come bancomat del Ssn e non trovano il coraggio gestionale di muoversi verso altre soluzioni.
Eppure il Governo è stato messo sull'avviso non solo dalle rappresentanze professionali e dai sindacati. Non ultimo il segnale chiaro del progetto di Cittadinanzattiva-Tribunale dei diritti del malato: gli infermieri (l’87,6% di loro) ritengono che la spending review, con i suoi tagli, sia stato un vero macigno sull’operato quotidiano e a farne di più le spese è stata la sicurezza dei pazienti (per il 70,7% dei professionisti i tagli hanno aumentato i rischi), i tempi di attesa (allungati ancora secondo il 67,7% degli intervistati), ma soprattutto la qualità dei servizi che secondo il 78,7% degli infermieri si ìè notevolmente ridotta con i tagli.
Anche per questo (ma non solo) la domanda per l’iscrizione ai corsi di laurea in infermieristica è in calo (passata da 2,2 a 1,8 domande per un posto a bando nel 2014-2014). Considerando che quella dell’infermiere è una professione soprattutto pubblica ed estremamente impegnativa: si tratta di assistere, “prendersi cura” della persona malata 24 ore su 24 e spesso anche di fare da supporto – come nel caso di patologie molto gravi e delle cronicità – alla famiglia.
Cosa fare? “Così è molto difficile garantire una qualità costante del servizio e a farne le spese sono non solo i professionisti, ma anche e soprattutto i cittadini”, dichiara la presidente Ipasvi e senatrice in commissione Igiene e sanità a Palazzo madama Annalisa Silvestro.
"Il vero nodo – aggiunge - non è quanto spendiamo, ma come spendiamo e come amministriamo i servizi. Si aggrediscano le duplicazioni esistenti di centri decisionali, di funzioni e strutture che non danno risposte ai veri bisogni dei cittadini e che assorbono risorse impropriamente e penalizzano l'equità di accesso alle cure. Queste, oltre agli altri sprechi, sono le cose su cui le Regioni devono coraggiosamente intervenire per ottenere veri e duraturi risparmi”.
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