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Silvestro (FNC Ipasvi): "Infermieri protagonisti del futuro, restiamo uniti e riprendiamoci gli spazi dovuti in sanità"

di Redazione

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Ecco la relazione completa dell'intervento della Senatrice conclusasi tra gli applausi generali e le ovazioni di consenso.

Locandina congressoROMA. Mentre il XVII Congresso Nazionale dei Collegi Ipasvi volge al termine in quel di Roma, vi vogliamo riproporre su Nurse24.it la relazione introduttiva all'evento della Sen. Annalista Silvestro, presidente della Federazione Nazionale dei Collegi Ipasvi, interrotta più volte da sonori applausi di approvazione da parte dei circa 4.000 delegati e ospiti presenti al Palazzo della Musica nella Capitale.

I Collegi Ipasvi, come noto, sono stati attivati nel 1954. Da oltre 60 anni la professione cresce, nonostante le tante difficoltà, non ultime quelle generate dalla crisi economica, che tanto impatta sul sistema welfare del nostro Paese e che ha portato alla creazione di un numero consistente di precari e disoccupati nel campo infermieristico.

Ma vediamo cosa ha detto Silvestro.

* * *

Da dove siamo partiti

Il primo piano del Congresso di tre anni fa era focalizzato sui tagli, sui risparmi, sulla spending review e sulla necessità di fare una scelta su quale strada intraprendere in relazione all’evoluzione delle competenze infermieristiche. Quei temi ci circondano ancora con tutte le questioni che ne sono sottese e ci coinvolgono in egual misura sia come italiani, sia come infermieri.

Conosciamo bene le criticità anche per la fatica, di ogni giorno, per mantenere alto il livello dell’assistenza e per continuare a guardare avanti nonostante le difficoltà inter-professionali, organizzative e le tante altre problematicità tra cui la mancanza di ricambio e di supporto operativo, il lungo blocco contrattuale e un riconoscimento sociale flebile e non certo coerente con quanto diamo al sistema salute e alla collettività nazionale.

Ma l’elemento di ulteriore riflessione in questo Congresso è un altro: la crisi non fa indietreggiare la struttura disciplinare della nostra professione né la sua significatività che viene confermata nella sua forza evolutiva e che vede delinearsi davanti a sé nuove, rilevanti e sfidanti tappe... che intendiamo affrontare e vincere... ancora e insieme.

Una professione, la nostra, che parte da lontano.

In Italia, i natali della professione si collocano verso fine dell‘800 - primi del ‘900 quando alcune donne dell’aristocrazia italiana e straniera, aprono le prime scuole per infermiere richiamandosi a Florence Nightingale e alla sua rivoluzione ideale e formativa.

Tante sono state le tappe che hanno portato in rampa di lancio gli infermieri, poi decollati con forza corale a partire dagli anni ’90 del secolo scorso e oggi ancora in viaggio verso mete professionalmente qualificate e qualificanti. Mete e tappe che ci hanno consentito di superare l’adolescenza professionale e che hanno strutturato gli infermieri italiani come un gruppo professionale maturo, in grado di confrontarsi alla pari con le altre professioni e di farlo non solo nel nostro Paese, ma anche in un’Europa che ha aperto le sue frontiere alla salute.

Poco più di sessant’anni che, soprattutto nella loro ultima parte, hanno segnato un costante sviluppo della professione: l’istituzione del profilo professionale, l’abrogazione del mansionario, le lauree di primo e secondo livello, i master, i dottorati di ricerca, la dirigenza infermieristica, fino alla recente riproposizione della mai abbandonata idea delle specializzazioni e dell’infermiere specialista.

Perché questi richiami? Perché in questo percorso della professione non c’è la parola stasi o arretramento. Anzi, anche in questi momenti si sta delineando una svolta evolutiva che impatterà non solo sull’infermieristica, ma su tutta l’assistenza sanitaria, globalmente intesa.

Abbiamo, dopo davvero tanti anni, la possibilità di un riconoscimento formale dell’evoluzione delle competenze disciplinari infermieristiche.

“Io uso il termine nursing come stimolo di miglioramento”, scriveva Florence Nightingale. L’abbiamo presa in parola, facendo crescere la professione, migliorandone la struttura professionale e la qualità e ridefinendone le responsabilità a vantaggio dei pazienti e del sistema welfare che si rende garante di assistenza e orientamento alla salute per l’intera collettività nazionale.

Il ridisegno delle competenze è l’occasione per una riflessione sull’impostazione dei processi clinico assistenziali e su come il dispiegamento delle potenzialità delle diverse professioni, a cominciare proprio da quella infermieristica, possa consentire di recuperare efficienza, appropriatezza, prossimità e continuità nella risposta sociosanitaria.

Ed è proprio per questo che trovo surreale, come alcuni ventilano, che con le sei aree ora previste per delineare le funzioni dell’infermiere specialista, si torni al mansionario e si propongano e si pongano in essere invasioni di campo.

L’ipotesi surreale di un ritorno al mansionario non merita commenti.

Sull’invasione di campo, evidenzio e sottolineo che il nostro fine non è espropriare competenze altrui o svolgere attività da medici “bonsai”. Il nostro fine è utilizzare una marcia ulteriore per assistere i pazienti, individuarne e approcciarne le necessità, incidere nel processo organizzativo e decisionale di sistema e dare, conseguentemente, risposte ancora più pertinenti e mirate alle contingenze economiche e ai bisogni che emergono dall’attuale scenario demografico, epidemiologico.

Non a caso il titolo del Congresso è “Infermieri e cittadini: un nuovo Patto per l’assistenza”. Perché se “il Patto è un accordo, una promessa che può costituire anche il fondamento di una relazione”, allora gli infermieri intendono impegnarsi in un nuovo Patto per delineare e rafforzare la loro risposta sanitaria e garantire una presenza altamente efficace in cui sia sempre più trasparente e strutturalmente integrato, l’apporto di chi diagnostica e cura le patologie e di chi assiste e accompagna la persona nei suoi percorsi curativo-assistenziali.

Gli infermieri progettano, sperimentano, costruiscono e ricostruiscono processi assistenziali, percorsi organizzativi e flussi formativi. Si impegnano in nuove logiche curative, educative e nella strutturazione di reti relazionali che nel loro insieme danno risposta a nuovi bisogni di cura e assistenza che scaturiscono anche dalla fragilità, dalla dipendenza, dalla cronicità, dal disagio e dalla solitudine nella malattia e nella terminalità di vita.

Gli infermieri ci sono e ci vogliono essere. Sempre di più, con maggiore consapevolezza e assumendosene la responsabilità. Vogliono definire un nuovo Patto per l’assistenza in cui vi sia non solo l’impegno alla vicinanza, alla qualità dell’assistenza e della relazione, ma anche l’impegno per superare ostacoli, arretratezze e criticità, anche nostre, e del sistema.

Dove siamo adesso e cosa ne pensiamo: il sistema sanitario

È ben nota la condizione economica del Servizio Sanitario Nazionale e del sistema sanitario in generale. Va però detto che la spesa che si viene delineando non può più essere definita, come per tanto tempo si è detto, senza freni. Perché di freni ne ha e ne ha avuti così tanti in questi ultimi anni, da essere tra le più basse d’Europa.

E per quanto riguarda il livello dei servizi, l’OCSE a gennaio ha inserito il nostro Paese tra i migliori per la qualità dell’assistenza e per i risultati raggiunti.

Ma l’OCSE, richiamati i traguardi che sono stati raggiunti e mantenuti soprattutto – diciamolo – grazie a chi opera nel sistema e ce l’ha davvero messa tutta per fare il suo dovere ben al di là di ciò che gli è stato messo a disposizione, ha anche tirato le orecchie all’Italia, spronandola a un approccio più “solido” e “ambizioso” per:

• garantire che gli sforzi attuali per contenere la spesa sanitaria non intacchino la qualità dei servizi, principio fondamentale di governance;

• sostenere le Regioni che hanno una infrastruttura più debole, perché eroghino servizi di pari ampiezza, equità e qualità di quelle con le performance migliori;

• monitorare la qualità;

• migliorare il sistema.

E l’OCSE spinge l’Italia anche ad ampliare e rinnovare l’assistenza primaria, visto che è ancora impostata prevalentemente sui servizi tradizionali erogati dai medici di medicina generale in logica individuale e che destina una piccola spesa per erogare servizi alle persone fragili o in condizione di dipendenza e di importante cronicità.

L’orientamento deve essere, invece, diverso; bisogna andare verso la costituzione di aggregazioni multiprofessionali, verso la creazione di reti assistenziali, verso l’assistenza nel domicilio dei cittadini, verso gli ospedali di comunità e le strutture intermedie territoriali.

Bisogna, dice ancora l’OCSE, investire sugli infermieri proprio per le loro caratteristiche professionali.

È tempo, dunque, di cambiare: non può più essere rimandata la definizione di standard inerenti l’assistenza primaria e i servizi territoriali e domiciliari. È l’ora di individuare e utilizzare – e la Federazione si sta mettendo in gioco perché questo accada – indicatori di esito e risultato e mantenere un attento presidio perché sia garantita l’omogeneità di risposta curativo assistenziale e sia ampliato il focus sul nuovo programma di accreditamento nazionale ai servizi di assistenza primaria e territoriale.

Ma soprattutto bisogna fare, come ancora l’OCSE sollecita, lavoro di squadra e in rete.

I processi di cura e assistenza non si fanno senza sinergie, confronto di saperi, di metodi e modelli. Non si fanno appropriatamente senza mai rivedere capacità e ambiti di competenze. Non per intaccare ed erodere il campo di attività di questo o di quel professionista, ma per essere invece complianti con l’evoluzione generale e ineludibile dei saperi, dei bisogni, dei sistemi organizzativi e soprattutto con le necessità e le aspettative dei cittadini.

Parliamo da sempre della rilevanza e della forza insita nel lavoro di squadra impostato su obiettivi comuni e integrati.

Bisognerà che i decisori di sistema abbiano però il coraggio e l’onestà intellettuale di prendere atto per adoperarsi di conseguenza, che per lavorare davvero in squadra, devono essere superate obsolete gerarchie, eliminate ingiustificate disparità decisionali oltre che evidenti privilegi organizzativi, giuridici e disparità anche economiche.

Gli infermieri ci hanno creduto e hanno investito molto nel lavoro di équipe e per obiettivi; ma il sistema non ha dimostrato di apprezzarne la rilevanza né ha saputo dare contezza di quanto sia fondamentale il loro contributo: blocco del turnover, blocco dei contratti, blocco dell’innovazione organizzativa, blocco dell’evoluzione professionale, blocco se non addirittura perdita del potere di acquisto.

Così è difficile mantenere motivazione, eticità comportamentale e voglia di impegnarsi per onorare quotidianamente il Patto con i cittadini e gli assistiti.

Bisogna continuare a ricordare a chi ha la responsabilità “alta” della programmazione e della gestione delle risorse, che sono gli operatori a garantire il successo del sistema e che gli infermieri sono, di quegli operatori, la parte più numerosa e significativa.

La crisi fa male, tutti ce ne rendiamo conto. Un gruppo di infermieri, intervistati di recente, ha confermato un impatto pesante delle manovre economiche sulla propria attività quotidiana a causa della diminuzione di personale, e stigmatizzato le limitazioni indotte sulle scelte terapeutiche e i vincoli sulle scelte sanitarie strategiche.

Che fare? Non rientra nel mandato istituzionale dei Collegi e della Federazione portare avanti rivendicazioni contrattuali e inerenti l’organizzazione del lavoro; ma buon senso e necessità indicano una strada possibile.

Se vogliamo continuare a garantire una buona e appropriata assistenza bisogna che le Regioni ridefiniscano le modalità e gli ambiti in cui rivalutare e rivedere la spesa; spending review non significa solo tagliare come si è voluto far credere. Spending review significa ripensare, riorganizzare, innovare e poi, solo poi, tagliare l’obsoleto, il ridondante, l’inappropriato. Risparmiare dove appare più facile, come sul personale, porterà anche a un risultato nel tempo breve, ma certamente – e lo stiamo vedendo – a una ricaduta negativa sull’assistenza, sulla cura e sul benessere dei pazienti.

Si aggrediscano allora le duplicazioni di centri decisionali, di funzioni e strutture che non danno risposte ai veri bisogni dei cittadini e che assorbono risorse impropriamente penalizzando, conseguentemente, l’equità di accesso alle cure.

Queste, oltre a ridurre ben altri sprechi, sono le variabili su cui si deve coraggiosamente intervenire per ottenere veri e duraturi risparmi; basta con la riduzione del personale, basta con la riduzione dei professionisti, basta con l’ibernazione dei loro compensi.

Il futuro a breve e medio termine: il Patto per la salute

Il Patto per la salute serve. È una guida. Dovrebbe essere inteso come risorsa per poter seguire linee di gestione e di operatività omogenee affinché tutti abbiano uguali diritti di accesso e di prestazioni. Ma un Patto per la salute dovrebbe basarsi sui punti di forza che caratterizzano il sistema, svilupparli e sostenere la maggiore appropriatezza, la migliore assistenza e le migliori prestazioni in termini di qualità.

Quello che è stato approvato a luglio dell’anno scorso è sicuramente un Patto interessante, ma poggia su un fondamento fragile. O si valorizzano i professionisti, si rileva il loro fabbisogno reale e si recluta il personale necessario per realizzare quanto lì previsto, o si parla del nulla. E gli obiettivi del Patto per la salute senza un congruo numero di infermieri difficilmente potranno essere raggiunti.

Il Patto è ambizioso perché tocca una serie di elementi fondamentali e dà indicazioni mirate su molti capitoli importanti. Ma, e lo ribadisco per l’ennesima volta, non definisce con quali risorse umane il tutto potrà essere realizzato: umanizzazione, assistenza domiciliare, terapia del dolore, ospedali di comunità e altro ancora.

La lista delle scadenze non rispettate era già lunga alla fine dell’anno scorso, continua ad essere lunga ed è probabilmente destinata ad allungarsi ancora lasciando molte cose incompiute. In testa alla lista del “non adempiuto” c’è uno dei temi che di più interessano i cittadini e che coinvolgono direttamente gli infermieri: l’assistenza a domicilio e nel territorio.

Tema che sembra finito nel freezer, da un lato per le resistenze e i ritardi nella riorganizzazione degli ospedali, dall’altro per il rallentamento dovuto ai freni di alcune famiglie professionali e per il poco coraggio dei decisori.

Stando fermi non si potrà garantire la continuità assistenziale, muovere verso la necessità, fortemente sentita dai cittadini, dell’assistenza a domicilio e degli ospedali di comunità e rimarrá ancora sulla carta il processo di umanizzazione.

In realtà si è anche quasi spento il dibattito sugli evidenti ritardi in cui è caduto il Patto.

È anche per questo che riteniamo che nel nuovo Patto per l’assistenza che noi vogliamo stringere con i cittadini, ci debba essere anche un nostro impegno diretto per scuotere i decisori, per elaborare standard, per coinvolgere i cittadini, per sostenere il Servizio Sanitario Nazionale.

L’ospedale

L’ospedale è destinato a cambiare faccia. È un ritornello che si ripete da anni. Lo dice anche il Patto per la salute. Lo hanno delineato i nuovi standard ospedalieri che sono lo strumento e il presupposto per il cambio di rotta.

Un documento di particolare rilevanza è quello sugli standard ospedalieri perché potrà incidere in maniera significativa sull’offerta sanitaria e sui modelli organizzativo-assistenziali che dovranno accompagnare la riduzione complessiva dei posti letto a favore delle cure sul territorio strutturando le dimissioni protette, la continuità delle cure e dell’assistenza, i programmi di ospedalizzazione domiciliare. E il documento sugli standard ospedalieri pare voglia ridefinire l’offerta sanitaria partendo finalmente dai bisogni del cittadino, abbandonando l’attuale centratura sul percorso diagnostico-terapeutico e sulla disciplina medica.

Nel processo di cambiamento delineato, il ruolo dell’infermiere è rilevante. Noi lo diciamo da tempo e ora prendiamo atto che, finalmente, lo dicono anche altri e lo scrivono in un documento istituzionale; un documento che ne sancisce la rilevanza nell’assistenza domiciliare, nell’ospedale di comunità, comunque nella presa in carico dei pazienti e nella garanzia della continuità curativo assistenziale.

Documenti che noi non vogliamo diventino altre delle tante pagine già scritte nel corso degli anni: lette da tanti e applicate da pochi. Documenti su cui vogliamo impegnarci; la loro realizzazione rafforza il Patto tra il sistema sanitario e i cittadini e il Patto per l’assistenza tra gli infermieri e i loro assistiti.

Nel Patto per la salute si parla anche di ospedali organizzati per complessità assistenziale e intensità di cure. Non vogliamo assumere un atteggiamento autocelebrativo dicendo che è da lungo tempo che ne parliamo con lungimiranza di pensiero e nella convinzione che, aggregando i degenti sulla base dei loro bisogni, si renda più efficiente l’organizzazione delle strutture e si migliori l’assistenza.

Ma non vogliamo nemmeno che la partita che si sta giocando tra Governo, Parlamento, Conferenza Stato-Regioni e professioni sanitarie sull’evoluzione delle nostre competenze clinico assistenziali e manageriali, possa essere vissuta come una battaglia di “posizione” in cui è più bravo chi riesce a difendere il proprio fortino o a mettere bandierine nel campo avversario.

Vorremmo che vi fosse la consapevolezza di quanto è stato elaborato e messo a disposizione del sistema dagli infermieri, che sono pronti a dare la loro disponibilità per sostenere, con le proprie capacità e idee, un progetto che metta mano al cambiamento dei sistemi organizzativi e assistenziali nel segno dell’appropriatezza e dell’equità.

Questa volta le nostre idee e proposte hanno iniziato a trovare cittadinanza.


Il territorio

I cittadini hanno bisogno di risposte sanitarie. Ne hanno bisogno al momento della fase acuta della loro malattia, ma ne hanno ancora più bisogno quando l’acuzie è superata. Ma dopo la diagnosi e la terapia iniziale, dopo il momento “ospedale” a chi possono rivolgersi?

Molti si rivolgono agli infermieri. Ma c’è anche chi si rivolge a badanti e chi – per motivi più legati alle ristrettezze economiche che alla soluzione dei bisogni – fa da sé. E c’è anche chi cerca prestazioni su internet, affidandosi spesso a soggetti che non danno alcuna garanzia di professionalità, ma che servono solo a non spendere troppo.

Un mercato quello delle cure e dell’assistenza che potrà produrre problemi ed eventi critici se non vedrà muoversi al suo interno professionisti consapevoli, esperti e, soprattutto, accreditati.

Sul territorio l’infermiere dovrà assumere anche un altro grande compito: quello di educatore sia per insegnare come eseguire al meglio alcuni atti di accudimento, sia e soprattutto per come stare vicino al proprio congiunto per aiutarlo a mantenere il miglior equilibrio possibile nel suo continuum salute-malattia.

Un infermiere educatore che finalmente sviluppa e implementa nel territorio un ruolo antico ma mai completamente agito; un ruolo che nella forte crescita della domanda di assistenza, anche nel libero mercato, potrà trovare ampi spazi e rispetto al quale siamo pronti con proposte concrete da rendere velocemente operative.

Dove vogliamo andare, come e con quali proposte: il futuro degli infermieri

Ci impegniamo per un cammino in cui costruire elementi di certezza professionale e, auspicabilmente, anche economica. Un cammino senza ostacoli strumentali, morali e materiali e senza inutili giochi di potere che frenano il raggiungimento degli obiettivi della nostra disciplina: un’assistenza migliore, una professione migliore.

Un cammino di crescita professionale che dobbiamo, insieme e ragionando in termini di rete, intraprendere. Siamo una collettività importante per il ruolo che la nostra professione ha nel garantire la salute dei cittadini. Ed è per questo che dobbiamo mantenere la nostra specificità anche in un sistema complesso come l’attuale.

I nostri sono obiettivi semplici e a quegli obiettivi abbiamo sempre guardato. Obiettivi che ora si stanno consolidando grazie alle scelte fatte con e per la professione. Ma soprattutto sono obiettivi a cui possiamo guardare identificando prospettive e ruoli davvero realizzabili.

Il modello prevalente della sanità del futuro prevede meno medici perché aumenta la necessità di presa in carico, di accompagnamento, di educazione alla prevenzione e alla gestione della propria salute e al ripensamento dei propri stili di vita.

La cornice cambia: negli anni ’70 la famiglia tipo era composta di due bambini, due adulti e tre nonni; oggi è composta da un bambino, due adulti, quattro nonni e due bisnonni. Il tasso di disabilità aumenterà esponenzialmente come pure i costi per la collettività che passeranno dai circa 1.000 miliardi attuali ai 6.000 miliardi di euro l’anno in un tempo relativamente breve.

È sulla base di questi dati che dobbiamo compiere le nostre riflessioni. Finora la risposta del sistema per fare fronte al trend in aumento della spesa, è stata quella di diminuire i posti letto, alcuni servizi ospedalieri, centralizzare i servizi di acquisto e di amministrazione del personale, contenere i costi dei farmaci, bloccare il turn over... ma il territorio da tutto ciò non ha avuto impulso. Da vent’anni continuiamo a parlare del “mitico territorio”, ma tutto resta come prima.

Immagino che ciò succeda anche perché andare verso quello scenario significa mettere in discussione l’attuale modello centrato sugli ospedali e sulla clinica dell’acuzie e riposizionare una serie di figure professionali che oggi fanno fatica a ripensarsi in logica diversa.

Si toccano nodi rilevanti, si aprono fronti del tutto diversi dagli attuali mentre intanto i bisogni del cittadino crescono come pure le aspettative di sostegno e assistenza. Ed è anche per questo che fra i prossimi step vi è quello della formalizzazione della già avvenuta evoluzione delle nostre competenze sia in chiave assistenziale, sia in chiave manageriale.

Per le competenze specialistiche il percorso è già scritto da tempo e ora deve decollare.

Il comma 566 della Legge di stabilità 2015 non ha forzato alcuna mano; ha semplicemente dato il “la” a una nuova “composizione” del processo di cura e assistenza che, come le note di un concerto devono essere le intonate le une alle altre, deve prevedere ruoli, competenze, relazioni e responsabilità individuali e di équipe su atti, funzioni e obiettivi delle professioni sanitarie, anche attraverso percorsi formativi “complementari”, ossia post base, ossia specialistici.

Abbiamo ragionato delle competenze che definiscono l’assistenza infermieristica, della loro fisiologica e già comunemente diffusa evoluzione; di sperimentazioni ancora più innovative attuate dagli infermieri in numerosi luoghi del Paese e dell’aspettativa di giungere, finalmente, alla figura dell’infermiere specialista.

Quelle sperimentazioni e altre e ulteriori ancora, ora si potranno strutturare e ridefinire anche con un approfondimento disciplinare effettuato in percorsi formativi e di ricerca nelle sei aree di intervento.

Non ci abbiamo creduto solo noi, evidentemente. Ci crede il mondo che ha bisogno di un infermiere in grado di diversificare le proprie peculiari competenze per affrontare con abilità, capacità, scientificità e vicinanza i bisogni emergenti nei cittadini attraverso la definizione di peculiari processi assistenziali, l’orizzontalità e la continuità dei percorsi, la diversificazione della risposta, l’estensività assistenziale, l’educazione e l’informazione.

Siamo chiari però, ripetiamolo: non ci sono forzature. Nessun blitz. Nessun pasticcio. Nessun tentativo di togliere qualcosa a qualcuno o di mischiare carte. Semplicemente un atto regolamentare dovuto, per chiarire che la strada che si sta percorrendo non è una scelta di pochi, ma un desiderio di tutti. O almeno di tutti coloro i quali hanno responsabilità gestionale, programmatoria e di Governo.

Proprio per questo si tratta di una partita ormai ineludibile a cui non siamo disposti a rinunciare: basta con il gioco dell’oca per cui ogni volta che arriviamo vicino al traguardo qualcuno ci dice che dobbiamo ricominciare daccapo. Ora siamo in fondo, e il gioco si deve concludere.

Basta con il “benaltrismo” di chi ci dice da troppo tempo che c’è ben altro di più importante o significativo da fare. Dobbiamo coagularci per portare a casa i “nostri” risultati.

C’è necessità di infermieri generalisti e di infermieri specialisti, tutti competenti, preparati, capaci di lavorare in gruppo e in rete e di confrontarsi su un disegno assistenziale e anche di metterlo in discussione per raggiungere i risultati migliori per la collettività e per la propria famiglia professionale.

Dobbiamo rimetterci in cammino quindi per rendere evidente quello che il gruppo professionale infermieristico è in grado di dare alla collettività e quello di cui ha bisogno per meglio esprimere le sue competenze e potenzialità nei confronti dei cittadini e del sistema.

Conclusioni

In conclusione direi che non si discute sul nostro futuro. Un futuro ancora con qualche ombra ma che proprio per questo ci chiama a lavorare assieme coralmente, Federazione, Collegi, sindacati, ognuno per la propria parte, senza invasioni di campo o sovrapposizioni.

Passi ben scanditi se non si può correre, ma passi certi che portino gli infermieri verso gli obiettivi che si sono dati. Non siamo spalla di nessuno, siamo professionisti che hanno scelto la propria professione e ora devono saperla gestire e programmare. Come, d’altra parte, abbiamo sempre fatto.

Gli infermieri devono proseguire nel loro cammino; sempre e a testa alta. Devono farlo uniti, camminando con i cittadini grazie a un nuovo Patto per l’assistenza che è l’obiettivo che vogliamo con forza perseguire.

Ho iniziato questa relazione citando Florence Nightingale e vorrei concluderla ancora con una sua definizione a tutti noi ben nota: “L’assistenza è un’arte e se deve essere realizzata come un’arte, richiede una devozione totale e una dura preparazione, come per qualunque opera di pittore o scultore, con la differenza che non si ha a che fare con una tela o un gelido marmo, ma con il corpo umano, il tempio dello spirito di Dio. È una delle Belle Arti. Anzi, la più bella delle Arti Belle”.

E, Colleghi, che sia davvero così dipende, ancora una volta, da noi. Crediamoci!

 

Annalisa Silvestro

Presidente Federazione Nazionale Collegi Ipasvi

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