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Si sceglie di fare l’infermiera per curare un po’ anche se stessi

di Ursola Renzi

Curaanima

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Foto di Margherita Vitagliano https://goo.gl/utRGgX

Ti togli la divisa, ti rivesti con i tuoi abiti, chiudi lo spogliatoio, timbri il cartellino, esci dall’ospedale…riprendi i passi della tua vita e ti lasci tutto alle spalle.

Ti dimentichi per un giorno o due le problematiche che affliggono il tuo reparto, ti dimentichi i tuoi pazienti.

È possibile mettere una barriera tra essere in divisa e non essere in divisa?

Qual è il giusto grado di empatia che devo usare per fare sentire i pazienti e i loro famigliari accolti, compresi?  Cioè fare capire loro che sono al centro del processo di cura?

Qual è il giusto distacco che devo mantenere per non farmi risucchiare dalla loro sofferenza, dalle loro storie personali, dalla loro vita?

Queste sono le domande che non trovano risposta.

Sembra assurdo ma è più facile per me indossare la divisa e lasciare la mia vita fuori dall’ospedale, mentre è più difficile togliermi di dosso quella maledetta divisa, torna a essere naturale portarmi a casa i “miei” malati e le loro storie.

Conosco i miei limiti di essere umano, non ho mai creduto di essere indispensabile, so che la vita segue il suo ineluttabile corso e non segue né logica né giustizia.

Non credo nelle crociate assurde, nelle cure miracolose, nei viaggi della speranza, però penso che ognuno debba sceglie liberamente il suo percorso di cura e di morte.

Si sceglie di curare gli altri, di fare l’infermiera, per curare un po’ anche se stessi.

Non è certamente la motivazione iniziale questa, ma col passare degli anni ti accorgi quanto questo lavoro ti aiuti a cambiare la prospettiva sulla vita, sulla morte sul mistero della sofferenza.

Questo almeno è successo a me.

Dopo quasi venticinque anni che indosso questo camice che percorro le vie della sofferenza, ancora non so dire se sono una brava infermiera. So che questo è il mio posto, non desidero fare altro nella vita se non imparare ogni giorno qualcosa che mi renda un operatore esperto e attento ai bisogni di chi ho di fronte.

Ognuno ha il suo “modo” di essere infermiere, non esiste un modello unico che possa andare bene a tutti i pazienti.

Il mio? Cerco di ricordarmi sempre che di fronte a me c’è prima di tutto una persona. Può essere un bambino piccolo, una giovane donna o un anziano non fa differenza ha diritto a tutta la mia attenzione, al mio ascolto, l'empatia.

Non penso mai che possa essere un mio familiare.

Cerco di entrare nella vita degli altri, perché un malato è un padre, un nonno, un figlio… Questi legami sono fondamentali nell’incertezza della malattia.

Cerco di essere sempre veritiera nell’informare, dettagliata nel descrivere quello che mi appresto a fare.

“Troppa verità fa male, i pazienti non la possono sopportare”… diceva un mio insegnante, io credo che la verità sia indispensabile per creare il rapporto di fiducia necessario.

Cerco di essere col cervello, col cuore, anche fisicamente vicina. Fare sentire di essere lì per lui con lui malato. Cerco di alleviare le sofferenze, non solo con il buon cuore ma anche con i presìdi e i farmaci a mia disposizione, la presenza.

Cerco di non arrendermi, di essere paziente alle stesse domande alle stesse richieste del malato e dei familiari, la gentilezza.

Tante volte ho provato a definire la mia professione senza mai riuscirci completamente.

La risposta è arrivata alcuni anni fa quando una mente molto illuminata, a mio parere, ha tappezzato gli ingressi dell'azienda per la quale lavoro con dei cartelli che riportavano le parole:

“La cortesia è l’anima della cura”.

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