Véronique Lefebvre des Noettes, Psichiatra geriatrica e ricercatrice associata presso il Laboratorio interdisciplinare di studi politici Hannah Arendt Università Paris-Est Créteil Val de Marne, ha pubblicato su “The Conversation” un articolo sulla violenza in ospedale, violenza intesa non solo nei confronti degli operatori, ma anche verso i pazienti stessi. Nell'ospedale si combinano violenza istituzionale, gestionale, fisica, psichica e sociale.
Violenza in ospedale: Quando non si parla la lingua del prendersi cura
La scena che si presenta è la seguente: la famiglia di un uomo anziano si lamenta con l’équipe sanitaria che appena comunicato come per il paziente “non ci sia più nulla da fare”. Alcuni membri della famiglia sequestrano il medico nel suo studio e lo minacciano di morte.
Altra scena: in un altro momento, in un corridoio, i pazienti passeggiano mentre lo staff è impegnato in altre attività. Un paziente improvvisamente spinge un'altra donna, che si è malauguratamente trovata sulla sua strada. Risultato: frattura del collo del femore per la donna.
E ancora, altra scena: un paziente demente morde un Oss mentre gli viene fatta l’igiene.
Questa è la violenza nell'ospedale pubblico, in tutte le sue forme.
Gli operatori sanitari continuano a proclamare i loro valori di umanità e abnegazione. Ma questo atteggiamento coraggioso nasconde talvolta il loro scoraggiamento.
Cosa fare per ridar vita a valori danneggiati dall'attuale clima di violenza? È necessario lasciare che gli ospedali subiscano una gestione aziendale? Il singolo, l'ascolto, l'incommensurabile sono al centro delle professioni "di cura" e devono essere rivalutati.
L'ospedale è ancora il luogo di accoglienza e assistenza?
Nell'ospedale si combinano violenza istituzionale, gestionale, fisica, psichica e sociale. In effetti, le strutture sanitarie sono parte di una società i cui valori di base sono l'autonomia, la velocità, il denaro. Proprio per questo, coloro che lavorano con coloro che vengono lasciati in diparte, a causa di età, polipatologie o povertà, devono affrontare una sfida enorme.
L'ospedale è il luogo di accoglienza per tutte le sofferenze. È il luogo della vulnerabilità umana, dalla nascita dell’individuo fino al fine vita.
La porta d’entrata è spesso quella dell’urgenza. Le équipe sono spesso sopraffatte da problemi medici differibili e non urgenti. I tempi di attesa esacerbano il sentimento di ingiustizia, ciascuno è convinto che il "suo" dolore debba essere trattato per primo. A questo si aggiunge la sensazione di insicurezza e l'ansia gli uni degli altri.
Il bisogno di una persona che ti tiene per mano
Si continuano a pubblicare rapporti allarmanti, libri e missioni incentrate sulla sofferenza degli operatori, senza che si generi alcun effetto. Lo stesso vale per gli abusi nelle istituzioni, sia che si tratti di disabili o anziani. Ma la soluzione è solo una: la presenza umana.
Quando sei anziano, malato e dipendente, hai bisogno di qualcuno che ti tenga per mano e dica parole di conforto. Non serve alcun algoritmo, robot intelligente o interfaccia sofisticata.
In un libro pubblicato da Aline Mauranges, psicologa, l'autrice mostra come la formazione degli operatori sanitari in ospedale possa a volte sembrare una discesa all'inferno. E queste esperienze sono state raccontate da un centinaio di infermieri e tirocinanti medici.
In Francia, cinque studenti si sono suicidati tra novembre 2016 e giugno 2017 e 700 hanno tentato il suicidio. Il 66,2% degli operatori lamenta ansia e il 27,7% depressione. Il 23,7% ammette di aver avuto pensieri suicidi.
Sopportare fino all'insopportabile?
La parola sofferenza viene da due parole latine. Il prefisso sub, che significa "sotto" e la parola "ferro", che significa "indossare". La parola evoca l'immagine di un supporto, che porta il peso di tutto ciò che trova sotto di sé. Fino all'insopportabile?
I valori umani sono il cuore del prendersi cura. Quando questi valori vengono distorti, danneggiati o addirittura distrutti dalle riforme e i cambiamenti vengono effettuati senza consultare gli operatori, non si è lontani dal maltrattamento degli operatori.
Ma la mobilitazione comincia a prendere forma. Gli operatori si ribellano alle regole paradossali prodotte dal sistema di valutazione e dall'accreditamento, che chiedono di fare sempre meglio e con sempre meno risorse umane. Dal canto loro, i leader, i direttori e i capi hanno messo in atto un noto meccanismo di difesa noto già ai tempi di Freud: la negazione.
Più di 400 operatori sanitari di una regione francese hanno espresso il loro disagio e la loro indignazione per il degrado di un ospedale pubblico, inviando una lettera aperta al Ministro della Sanità. Denunciano, tra le altre cose, l'incapacità di ricoverare (per mancanza di posti letto) i pazienti fragili, che devono così essere trasferiti in strutture lontane.
Su questo punto, Le Quotidien du médicin riporta una frase sentita da un direttore dell'ospedale: “le persone prendono tranquillamente la loro auto per andare all’Ikea, possono prenderla anche per andare in un ospedale più lontano.”
Va ricordato che gli operatori non sono lì per fare attività che generano profitti, né a fare il lavoro di una segreteria, né a discutere per ottenere l'accesso a un computer, perché altrimenti non ci sarebbe altrimenti tempo per i pazienti.
Sono lì per ascoltare e comprendere i pazienti, prendersi del tempo per sedersi e spiegare loro i trattamenti. I membri dell’équipe sono lì per assicurare continuità assistenziale tra ospedale e territorio, per accogliere le famiglie o le "persone fidate" scelte dai pazienti al termine della loro vita. Sono lì per supervisionare e insegnare ai più giovani. Sono lì per aggiornarsi per dare cure sempre migliori.
E se la vera innovazione consistesse nel portare i dirigenti e gli operatori sanitari a parlare la stessa lingua, quella dei valori del curare e del prendersi cura? Perché è la violenza che prende il sopravvento quando non si parla la stessa lingua.
Articolo tratto da Infirmiers.com
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