Negli ultimi mesi si sono moltiplicati gli studi e gli articoli in relazione alle aggressioni del personale sanitario, in particolare in quelle situazioni (Pronto soccorso e ambulatori) in cui le criticità organizzative e l’ansia dell’utenza possono innescare comportamenti estremi. Essere aggrediti e subire delle violenze non fa piacere a nessuno e non sempre le ricadute sulla salute possono essere riconosciute come causa di servizio. È uno dei tanti aspetti che fanno della professione infermieristica un lavoro usurante – ma una normativa specifica ancora non esiste – valutabile appieno sul piano fisico per lo sviluppo di patologie varie, sul piano psicologico direttamente correlato al peso della dimensione relazionale dell’assistenza. Un’attenzione particolare merita la valutazione delle ricadute della turnistica notturna sulla qualità della vita degli operatori.
Fare l’infermiere non è propriamente salutare
Già in uno studio di tre anni fa, l’American Journal of Preventive Medicine sottolineava come l’alterazione dei ritmi regolari, anche se solo per un breve lasso di tempo, provocherebbe l’11% di aumento complessivo della mortalità, ricordando poi la funzione oncoprotettrice della melatonina i cui livelli risulterebbero alterati nei turnisti.
Al pari della melatonina, altre proteine risulterebbero subire alterazioni dei loro livelli di normalità a causa di un’alterazione del ritmo circadiano dovuto alla turnistica notturna.
È quanto sottolinea un lavoro pubblicato lo scorso maggio sulla rivista PNAS (Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America) in cui vengono evidenziati i risultati di uno studio prospettico su sei giovani maschi ventenni, per un arco di tempo di sei giorni, in cui sono state simulate le condizioni di cambiamento del ritmo sonno/veglia.
I dati hanno rivelato un’alterazione simile ad un effetto “jet lag” prolungato nel tempo con ricadute a carico dell’omeostasi del “proteoma plasmatico” (l’insieme dei livelli delle proteine plasmatiche), in particolare relative a ben 129 diverse proteine, fra cui risultano alterati i livelli del glucagone (ormone antagonista dell’insulina) e della FGF19 (fibroblast growth factor), una proteina importante per facilitare il consumo calorico.
Oltre a quanto già evidenziato negli studi citati, si avrebbe anche l’azione negativa dei livelli “anormali” di cortisolo conseguenti all’alterazione del ritmo sonno-veglia; in un quadro potenzialmente peggiorativo se posto in correlazione alla presenza di stili di vita non salutari quali sedentarietà, dieta squilibrata, fumo.
Sempre in merito al turno notturno, ancora sul BMJ, lo scorso 1 marzo un articolo sottolineava anche la correlazione fra deprivazione del sonno e gli incidenti lavorativi, lo sviluppo di obesità, coronaropatie e neoplasie alla prostata, al polmone, al seno o al colon-retto.
Non è forse ora che si investa sulla sicurezza e sulla salute delle lavoratrici e dei lavoratori che rinunciano alla normalità del loro sonno per garantire la normalità del sonno altrui?
Nell’articolo si metteva in evidenza inoltre come proprio nella fascia notturna che va dalle 3 alle 5, si abbia il livello minore di capacità di attenzione, coordinazione, umore e concentrazione, da cui ne può discendere la considerazione che la capacità di utilizzo delle risorse cognitive e relazionali subisca conseguenze negative, in una valutazione d’insieme dove, è bene ricordare, come lo stress psichico e cognitivo, a livello cerebrale, predisponga all’insorgenza della demenza.
Quelle descritte, in maniera molto schematica e necessariamente degne di ulteriori approfondimenti, parlano di questioni in realtà note da tempo che però devono essere ancora affrontate in maniera utile sul piano organizzativo e professionale.
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