La parola Mobbing viene presa in prestito dal mondo dell’etologia: fu l’etologo Konrad Lorenz negli anni settanta ad usare il termine per la prima volta al fine di indicare il comportamento di alcune specie di uccelli che usano mettersi in gruppo per accerchiare, assalire e quindi far allontanare dal territorio un proprio simile.
Questa forma di vessazione, tipica di alcune specie animali, ha trovato il suo corrispettivo in alcuni comportamenti aggressivi che vengono messi in atto nel mondo del lavoro. Il primo a trovare questo legame è stato lo psicologo Heinz Leymann negli anni ottanta, il quale definiva il mobbing come una forma di terrore psicologico. Ad oggi il termine ha assunto notevole notorietà vista la triste diffusione del fenomeno: in Italia le vittime sarebbero circa un milione e mezzo secondo i risultati riportati nel volume “I numeri del mobbing”. Il mobbing è un fenomeno complesso che abbraccia sia il mondo giuridico che quello psicologico.
La Cassazione (Cass. n, 22393/2012) ha definito il mobbing come una “condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell'ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica”.
Quindi il mobbing è un’azione ripetuta nel tempo messa in atto da un “mobber” (o più d’uno) nei confronti di un’altra persona al fine di perseguitarla dal punto di vista psicologico attraverso vessazioni, emarginazione, critiche ed in generale comportamenti che arrecano un danno alla sua reputazione.
Il Mobbing può essere verticale, quando la violenza psicologica è perpetuata da un superiore gerarchico. Ma può essere anche orizzontale, ovvero passare attraverso forme di umiliazione e vessazione messe in atto da uno o più colleghi nei confronti di un altro collega.
Leymann, oltre ad averne per primo studiato il fenomeno, ne ha anche individuato cinque dimensioni misurabili attraverso un questionario chiamato LIPT (Leymann Inventory of Psychological Terror, 1990):
- comportamenti atti a “zittire” la vittima, che non le permettono di esprimersi e comunicare in modo adeguato;
- isolamento sociale a seguito di comportamenti atti ad emarginare la vittima;
- lesione alla reputazione;
- demansionamento attraverso l’assegnazione di compiti dequalificanti;
- conseguenze sulla salute fisica (assegnazione di compiti pericolosi fino a veri e propri attacchi fisici e/o sessuali).
Anche Rayner & Höel (1997) hanno identificato 5 categorie di comportamenti che caratterizzano il mobbing:
- minaccia allo status professionale ad esempio sminuendo la persona o umiliandola sotto il profilo professionale;
- minaccia alla reputazione personale: pettegolezzi, affibbiare soprannomi offensivi;
- isolamento: limitare accesso alle opportunità di carriera, isolamento fisico e sociale, evitare di fornire informazioni utili di proposito;
- sovraccarico di lavoro: eccessiva pressione lavorativa, attribuzione di scadenze difficili da rispettare, incombenze non necessarie;
- destabilizzazioni: assegnare compiti inutili, rimozione da ruoli di responsabilità, non dare importanza ai compiti svolti.
A prescindere dal tipo di mobbing ciò che è importante sottolineare è il carattere di ripetitività e sistematicità delle azioni messe in atto con lo scopo di ledere la persona che ne è vittima. Questo aspetto è importante per discriminare situazioni conflittuali e stressanti sul lavoro dal mobbing.
Le fasi del mobbing
Il mobbing non è un fenomeno stabile, ma si compone di diverse fasi. Harald Ege, psicologo esperto di mobbing, ha adattato al contesto italiano il modello a 4 fasi proposto da Leyman elaborandone uno a sei fasi:
- condizione zero: conflittualità “fisiologica” in cui tutti sono contro tutti, non c’è una vittima precisa, ma si tratta di una caratteristica tipicamente italiana del mondo del lavoro che viene, quindi, culturalmente accettata;
- I fase, il conflitto mirato: la conflittualità generalizzata della condizione zero emerge, viene individuata una vittima precisa con l’obiettivo di distruggerla;
- II fase, l’inizio del mobbing: la vittima inizia ad accusare un malessere psicologico, percepisce un cambiamento comportamentale da parte dei colleghi che gli provoca sofferenza e disagio;
- III fase, iniziano sintomi psicosomatici tra cui insonnia e problemi gastrici;
- VI fase, le ripetute assenze per malattia ed il calo di rendimento portano il caso all’attenzione dell’ufficio del personale da cui scaturiscono errori ed abusi nella gestione del caso;
- V fase, serio aggravamento della salute psicofisica della vittima;
- VI fase, esclusione dal mondo del lavoro.
Infermieri e mobbing
Purtroppo il mondo sanitario non è esente dal fenomeno. Secondo alcuni studi circa il 26.6% degli infermieri è vittima di comportamenti ostili sul lavoro almeno una o più volte a settimana.
Il rischio di mobbing tra gli infermieri è più alto di circa sette volte rispetto ad altri settori lavorativi.
Numerosi studi hanno esaminato le conseguenze del mobbing sugli infermieri i quali, oltre a condividere con altre figure professionali le conseguenze negative sul piano della salute psicofisica, subiscono un notevole peggioramento della performance lavorativa con un aumento degli errori e conseguenti ripercussioni sul livello di assistenza fornito ai pazienti.
Quindi le ricadute non sono solo sul piano personale, ma anche sull’organizzazione e sulla società intera.
Gli attori del mobbing non includono solo il mobber e la vittima, ma anche i cosiddetti “spettatori”. Secondo un’indagine del National Health System inglese (NHS), il 42% del personale sanitario assiste ad atti di violenza senza riportarlo alle autorità competenti.
Secondo uno studio pubblicato sul Journal of Clinical Nursing i comportamenti di mobbing più frequentemente riscontrati dagli infermieri sono:
- essere rimproverati in modo denigratorio in presenza di altre persone;
- essere accusati di cose delle quali non si ha responsabilità;
- Sentirsi sotto pressione, come se qualcuno li stesse controllando.
Lo stesso studio ha esaminato il tipo di conseguenze sulle vittime di mobbing tra gli infermieri. Dai risultati emerge che il 72.9% ha riportato stanchezza e sintomi da stress, il 69% emicrania, il 53% riferiva problemi di appetito (aumento o diminuzione), il 56,2% aveva pensieri intrusivi circa gli avvenimenti dei quali erano stati vittima con conseguente senso di tristezza.
Ma quali sono, in generale, le conseguenze nel lungo termine sul piano della salute psicofisica di chi è vittima di mobbing?
Dal punto di vista emotivo tra i vari quadri psicopatologici più frequentemente riscontrati troviamo: stress psicologico, disturbi del sonno, fatica, depressione, ansia, disturbi dell’adattamento, difficoltà di concentrazione, irritabilità, disturbo post traumatico da stress, fino al suicidio.
Dal punto di vista fisico i sintomi più frequenti includono: dolore muscoloscheletrico, fibromialgia, sintomi cardiovascolari.
Da non sottovalutare anche le conseguenze sul piano socio-economico a seguito del maggior numero di giorni di assenza da lavoro o, nei casi più estremi, di licenziamento.
Una forte correlazione sembra essere quella tra mobbing e disturbo post traumatico da stress (PTSD). Secondo uno studio (Di Martino, Vittorio, Hoel, & Cooper, 2003) i sintomi di PTSD riportati dalle vittime di mobbing sarebbero addirittura superiori a quelli delle vittime di incidenti.
Uno studio norvegese ha messo in relazione il mobbing con la prevalenza di pensieri suicidari: un campione di circa 1850 lavoratori è stato studiato per cinque anni e i risultati hanno riportato un rischio doppio di ideazione suicidaria dopo essere stati vittima di mobbing.
Mobbing: è opportuno parlare di prevenzione?
Molti sono i cambiamenti dal punto di vista organizzativo che potrebbero essere perseguiti per prevenire atti di violenza. Il Mobbing è un fenomeno complesso per il quale non esistono soluzioni semplici, tuttavia numerosi studi hanno evidenziato l’importanza di alcuni interventi di tipo psicologico per la prevenzione del fenomeno.
Tra questi le principali tre aree riguardano:
- competenze emotive e relazionali: secondo diversi studi promuovere lo sviluppo dell’intelligenza emotiva è efficace al fine di prevenire fenomeni di mobbing. L’intelligenza emotiva comprende un insieme di abilità che è possibile imparare, tra cui quella di riconoscere le emozioni, saperle regolare, gestirle ed utilizzarle in modo adattivo nelle interazioni sociali;
- assertività: sottoporre il personale a training assertivo ha trovato diversi riscontri positivi in termini di efficacia. L’assertività viene definita come “l’insieme delle abilità cognitive e comportamentali che consentono a un soggetto di affermare la propria personalità senza cadere in comportamenti passivi o aggressivi” (Garzanti 2016). Con il training assertivo quindi, si promuove questo insieme di abilità che servono a comunicare in modo efficace, diretto e chiaro, dando risalto alle proprie emozioni e rispettando il punto di vista altrui;
- dimensione gruppale: l’infermiere lavora in gruppo, ma che spazio viene dato a questa entità? Sarebbe opportuno creare degli spazi appositi, gestiti da personale preparato, finalizzati a favorire la comunicazione nel gruppo e risolvere le ostilità sul nascere. Questo spazio sarebbe utile per supervisionare il clima di gruppo e valutare il livello di benessere del personale.
Infine occorre un cambiamento culturale: troppo spesso questi episodi sono sottovalutati persino dalle persone più vicine alla vittima. Questo porta ad intervenire quando ormai i sintomi sono conclamati e non si può più negare l’evidenza. Nel mondo medico è cosa risaputa: prima si interviene e maggiori saranno le probabilità di successo. Non è cosi diverso per gli aspetti psicologici ed emotivi: non aspettiamo mai troppo prima di chiedere aiuto.
Commento (0)
Devi fare il login per lasciare un commento. Non sei iscritto ?