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editoriale

Le sfide per l’infermieristica contro una salute che peggiora

di Giordano Cotichelli

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Lo scorso 27 giugno a Bologna c’è stata la VII Conferenza nazionale delle politiche della professione infermieristica. Molte le voci e le figure che si sono confrontate, composite e variegate le opinioni in relazione al ruolo, alle competenze, alla preparazione e all’autonomia che la  professione infermieristica deve assumere per far fronte alle sfide future.

Un futuro che, a detta di molteplici indicatori nazionali, è ricco di incognite. Un futuro che è già “presente”, con il suo carico di criticità per la salute degli italiani e per il sistema sanitario stesso. In merito alcuni dati socio-economici possono essere utili a delineare il quadro della difficile fase di transizione del welfare italiano e delle relative ricadute della crisi economica in atto. I numeri sono ripresi dal rapporto annuale del Censis, dall’indice BES (Benessere equo e sostenibile) curato congiuntamente dal Cnel e dall’Istat.

 

Il rapporto 2014 del Censis mostra un sistema sanitario in difficoltà. In generale, nonostante la crisi, la spesa sanitaria privata degli italiani è aumentata del 3% rispetto al 2007. Se alcune prestazioni hanno subìto drastiche riduzioni (es. un milione di visite odontoiatriche in meno dal 2005 al 2012), in molti casi si è ricorsi al mercato per avere tempi rapidi di accesso a visite e prestazioni diagnostiche.

 

Chi può pagare aspetta da pochi giorni a una settimana al massimo, mentre nel pubblico le liste d’attesa diventano di mesi, con notevoli differenze fra le tre Italie: Nord, Centro e Sud. In generale il 74% degli italiani paga per intero gli esami ematici e il 19% quelli diagnostici, mentre c’è una crescita della spesa per i ticket del 10% tra il 2011 e il 2013. Alla fine non c’è da meravigliarsi se il 38,5% degli italiani ha il sentore di un peggioramento della sanità. In pratica si sta diffondendo sempre più il fenomeno negativo dell’out of pocket, termine che indica il reperimento sul mercato di quelle prestazioni che comunque sono (o dovrebbero essere) offerte dal sistema sanitario pubblico.

 

Gli esempi forniti dal Censis sono molteplici. Uno su tutti quello che vede un costo di 49 euro di ticket per una colonscopia in una struttura pubblica, previa una attesa di circa 2 mesi e 20 giorni, contro gli 8 giorni di “fila” dietro il pagamento di 213 euro per la prestazione privata.

 

Alla fine il quadro che ne scaturisce rischia di mandare all’aria tutte le belle e buone teorie relative alla prevenzione e alla promozione della salute, con un salto indietro a quando chi più aveva meglio stava. L’esempio della colonscopia non è citato invano. È noto come il cancro al colon retto sia considerata una malattia delle classi più ricche, quali maggiori consumatrici di carni rosse. Ciò nonostante la mortalità aumenta nelle classi più povere dato che possono permettersi meno screening, visite, controlli, compliance  terapeutiche, ecc. È la tipica malattia delle disuguaglianze nella salute, quelle dove cattivi stili di vita e assenza di equità nel sistema sanitario fanno la differenza fra genere, classe sociale, reddito, istruzione.

 

Ai dati diffusi dal Censis si uniscono quelli relativi alla corruzione e ai costi sanitari, resi noti dal libro bianco pubblicato in aprile dall'Ispe-Sanità, in cui per il contesto generale italiano si parla di: “Il tasso medio stimato di corruzione e frode in sanità è del 5,59%, con un intervallo che varia tra il 3,29 e il 10% (Leys e Button 2013). Per la sanità Italiana, che vale circa 110 miliardi di Euro annuo, questo si tradurrebbe in circa 6 miliardi di euro all'anno sottratti alle cure per i malati […] Secondo il Bribe Payers Index 2011  la sanità si colloca al settimo posto, ma è probabilmente il settore in cui i cittadini, specie i più deboli, pagano, anche con la vita, i costi altissimi della corruzione” (2014, p. 46).

 

Infine il citato rapporto Bes del Cnel e dell'Istat. Qui si evidenzia qualche buona notizia. In generale migliora la salute degli italiani. La speranza di vita aumenta a 79,6 anni per gli uomini e 84,4 per le donne, mentre diminuiscono i tassi relativi alla mortalità per tumori, demenze e malattie del sistema nervoso e mortalità infantile. Ciò nonostante si registrano notevoli disuguaglianze di genere, di reddito e di territorio che mettono in evidenza come le donne, che hanno una vita più lunga, rischiano però rispetto agli uomini di passarla in condizioni di disabilità o di malattia per più tempo. Al Sud la vita media è più breve, e si vive peggio, con la forte presenza di comportamenti a rischio fra le classi più disagiate. Inoltre i dati socioeconomici riguardanti istruzione, occupazione e reddito riconsegnano un quadro di un paese molto sofferente con molte incertezze di vita e di salute per il futuro.

 

Quanto detto però non rappresenta certo una novità e la percezione di un peggioramento “delle cose” negli ultimi anni sta diventando quasi strutturale nell’immaginario italiano. Anche in tema di salute. Tanto che viene da chiedersi quanti sarebbero oggi disposti a difendere a spada tratta la sanità pubblica tout court e quanti opterebbero invece per un ritorno al sistema assicurativo-mutualistico.

 

In tutto ciò le risposte possono essere molte e differenti. Di fatto ci sono i quesiti posti a Bologna, le potenzialità della professione infermieristica, la dimensione teorica e pragmatica che la scienza assistenziale è in grado di offrire. L’infermiere in Italia, ma non solo, può essere un soggetto di cambiamento, di riduzione delle disuguaglianze inaccettabili nella salute, a ogni livello. Competenze, campi di intervento, autonomia e specializzazioni di sorta di certo rappresentano già oggi un plus valore per il sistema, per la salute e per la professione stessa di investimento sicuro, in un ambito diffuso, fuori dall’istituzione vincolante dell’ospedale e come soggetto attivo nella comunità.

 

Ovviamente non senza difficoltà di fondo, di sistema, di relazioni, di competenze. Chi ci vorrebbe ancora come infermieri, in un ruolo ancillare anche sul territorio, chi ci teme come possibili “ladri di competenze”, mentre nella realtà, qualsiasi ottica rigida difensiva, chiusa, è destinata a perdere. Anche da parte di chi vorrebbe arroccarsi, come infermiere, nel porto sicuro dei compiti e delle funzioni routinarie, mai del tutto scomparse, dalla nostra quotidianità assistenziale.

 

Purtroppo non ci sono mediazioni possibili: l’infermieristica va allargata, diffusa e migliorata, a ogni livello, per la salute collettiva e individuale, per il sistema assistenziale, per noi professionisti.

NurseReporter

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