Gli Infermieri Pediatrici o gli Infermieri che operano in ambito pediatrico hanno delle grosse responsabilità e devono essere dotati di competenze professionali e relazionali adatte ad un approccio corretto all’utente-bambino e alla sua famiglia. Il paziente pediatrico, seppur fragilissimo, ha i suoi diritti, esattamente come l’adulto.
Il confronto quotidiano con un paziente molto fragile
La malattia è una condizione che per natura pone chi la sperimenta in una situazione di fragilità e dipendenza, situazione che unita al ricovero in una struttura ospedaliera può divenire addirittura drammatica. In queste pagine racconteremo l’esperienza di Sara, Infermiera Pediatrica che lavora in una nota struttura pubblica specializzata nell’assistenza e cura a bambini da 0 a 18 anni.
La rottura, improvvisa o annunciata - spiega Sara - ma in ogni caso mai facile, con il proprio ambiente e le proprie abitudini di vita, l’essere catapultati in un luogo estraneo e all’apparenza freddo e ostile, così come l’irrompere di un certo grado di depersonalizzazione che inevitabilmente la struttura ospedaliera comporta, può creare nel bambino un trauma non indifferente; il tutto si scontra infatti con il suo bisogno di sicurezza e la sua naturale propensione evolutiva alla conoscenza, alla comprensione e al controllo in autonomia di quanto lo circonda.
Vengono a concretizzarsi le sue paure più profonde e le componenti emotive in gioco sono tante, così come sono scarse le sue capacità di elaborare le esperienze vissute, con la conseguenza che il suo senso d’identità, fragile proprio perché in divenire, viene ulteriormente messo alla prova dalla malattia e dalla sofferenza.
Incapace di avere una visione a lungo termine e di comprendere appieno l’evento, lo vive con una profonda angoscia di cui però non trova la causa e neanche gli atti terapeutici che sperimenta su di sé riescono a fargliene capire le motivazioni, venendo vissuti quindi come invadenti e insensati.
Si trova improvvisamente a sperimentare la sofferenza, sua e altrui – commenta Sara; così, tra realtà e fantasia, tanto la malattia quanto la permanenza in ospedale tendono ad essere considerate come una punizione ad un qualcosa che si è fatto o detto, ed i genitori spesso ne diventano inconsapevoli attuatori.
Il naturale corso della vita subisce una battuta d’arresto e le reazioni che i bambini possono avere in merito alla malattia e all’ospedalizzazione sono, in relazione al grado di maturità raggiunto, tra le più disparate.
In un passato non troppo lontano, aggiunge la nostra interlocutrice, la pediatria veniva considerata una delle tante branche della medicina e il bambino alla stregua di un piccolo adulto; non è difficile capire come in una simile ottica non si ponesse la giusta attenzione verso quelle che invece erano e sono le sue reali necessità.
È stata la sua successiva identificazione come essere umano con delle specifiche peculiarità e la comprensione delle conseguenze negative cui ignorare tutto ciò poteva portare a cambiare finalmente il corso delle cose.
Se, infatti, il bambino è totalmente differente dall’adulto quando è in salute, perché non dovrebbe esserlo anche in caso di malattia? E perché non dovrebbero esserlo anche le sue necessità?
Nasce l’esigenza di stabilire per lui alcuni speciali e inalienabili diritti
Nel 1924 la Quinta Assemblea Generale della Lega delle Nazioni approva la Dichiarazione di Ginevra sui diritti del bambino; nel 1959 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite redige una nuova dichiarazione e nel 1986 arriva la Carta Europea dei bambini Degenti in Ospedale, ma bisognerà attendere il 1989, con la carta di Ledah, specifica della Convenzione Universale dei Diritti dei Bambini ad opera dell’European Association for Children in Hospital, per vedere riconosciuta l’importanza del diritto di opinione anche del bambino.
Non più dunque bambini solamente da curare e proteggere, ma bambini da considerare e rispettare nella propria identità personale e culturale, bambini titolari del diritto di essere informati in un linguaggio a loro comprensibile in merito a ciò che li riguarda così da poter dire la loro e garantirsi una propria autonomia di gestione.
Il bambino in ospedale ha infatti diritto al massimo grado raggiungibile di salute, al miglior trattamento possibile e che gli arrechi il minor disagio, alla presenza accanto a lui dei genitori, così come ad essere protetto da qualsivoglia tipologia di violenza.
In breve, ha tutto il diritto di essere assistito in modo globale dai sanitari, nel rispetto della propria privacy, con la garanzia di una routine che sia il più normale possibile, in cui siano compresi studio, gioco e relazioni interpersonali, al fine di ridurre al minimo il trauma del ricovero.
L’atteggiamento del bambino è però anche il riflesso di quello dei genitori, che riversano su di lui le proprie naturali paure, insicurezze e la voglia di protezione, non aiutandolo nel contenimento e nella comprensione delle proprie e spingendolo a voler a sua volta a proteggere chi gli ha dato la vita.
Per molto, troppo tempo, le reazioni dei bambini ospedalizzati sono state considerate null’altro che capricci e sicuramente in alcuni casi possono anche esserlo, ma ignorarle ostinatamente non è il modo migliore per elaborare e superare adeguatamente un momento critico quale quello del ricovero.
È innegabile che proprio il loro essere ancora bambini comporti una non completa maturità e quindi un’incapacità nel comprendere appieno le informazioni e compiere scelte in totale autonomia, ciononostante il loro consenso a qualsivoglia manovra, esame o cura deve necessariamente essere cercato, anche se mediato dalla fondamentale voce dei genitori.
L’essere soggetti a ritmi poco naturali, l’inattività e l’isolamento che in certa misura il ricovero porta con sé, non è cosa facile per il bambino che proprio per questo va accolto, ascoltato con sincero interesse e incoraggiato ad esprimersi.
I sanitari sono chiamati a cambiare il proprio punto di vista, a sviluppare le proprie capacità empatiche per impegnarsi in un percorso in cui l’interlocutore è un bambino malato con il quale occorre trovare il giusto modo di comunicare al fine di assicurarsi la sua fiducia e la sua collaborazione.
Far finta di niente, prendere a tradimento, raccontare bugie, così come il non fare cose invece necessarie – conclude la collega - sono divieti assoluti in quanto ingigantiscono la paura e comportano una perdita di fiducia negli adulti. Al contrario, dolcezza, rassicurazione, calma, sincerità, ascolto e rispetto sono, insieme al gioco, alla narrazione e al disegno, punti cardine attraverso cui si può aiutare il bambino a dare un senso all’esperienza che vive, a comprenderla e a distogliere l’attenzione dalla malattia, restituendogli così un senso di continuità con la realtà esterna.
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