L’esperienza di Mattia Viano, collega piemontese, che prova a spiegarci l’importanza del professionista infermiere nel campo delle Organizzazioni umanitarie.
Le Organizzazioni umanitarie pubbliche e private, comprese le Organizzazioni non governative, da sempre si occupano di assistenza sanitaria nei paesi del cosiddetto Terzo Mondo. Tutti i giorni volontari e professionisti (medici e infermieri) di tali sodalizi sono chiamati a fronteggiare la fame, a recuperare vittime delle guerre, a ridare dignità a chi ha subito la violenza del sesso, della religione o della politica.
“Ma che figura! Poi la gente vede che non sei riuscito a fare quello per cui hai studiato”.
È l’affermazione spontanea di mia nonna quando ha saputo dallo scrivente che sarei andato a partecipare ad un evento di sensibilizzazione con le scuole elementari. Questo nel mio piccolo comune ubicato nel cuneese. L’iniziativa era parte integrante di uno dei tanti progetti di promozione della salute programmate dall’Organizzazione Non Governativa (Ong) con cui collaboro.
Ma in soldoni cosa fa un infermiere in un’Ong? Procediamo per gradi.
Un’Organizzazione Non Governativa è definita come una specifica forma di ONLUS che opera principalmente nella cooperazione allo sviluppo ed è iscritta in un elenco dedicato. Le Ong sono organizzazioni del privato sociale che non dipendono direttamente dal Governo, ma che operano a livello internazionale.
In questo contesto dove lo mettiamo l’infermiere? Ovviamente in quelle Ong sanitarie che si occupano specificatamente di salute; anche se non credo che si possa ancora pensare alle singole professioni divise linearmente l’una dall’altra, senza contaminazione di ruoli e di saperi e senza necessità di punti d’incontro; ma questo è un altro discorso, troppo lungo e fuori luogo.
Dicevamo, Ong sanitarie. Va da sé che operando a livello internazionale si prospettano due vie: lavorare in un Paese a basso reddito oppure nel proprio Paese.
Parlando della prima chance, siamo tutti a conoscenza del ruolo fondamentale che ricopre l’infermiere all’interno dei progetti di cooperazione sanitaria, dove la nostra conoscenza tecnico-scientifica e la nostra capacità di problem solving e di advocacy vengono chiamati fortemente in causa.
Un esempio di tutto ciò è la cooperazione sanitaria in emergenza: siamo chiamati a gran voce per prestare alte competenze specifiche, spesso affiancati da un team di medici e ostetrici, in un ambiente dove per un determinato periodo si creano situazioni d’aumento di bisogno di prestazioni sanitarie che richiedono una gestione urgente e tempestiva. La nostra è una figura molto richiesta in questo ambito e vi sono associazioni anche molto famose che espatriano personale qualificato verso i Paesi dove vi è in atto un’emergenza sanitaria.
Per questa ultima s’intende generalmente una situazione in cui si sono verificate guerre, catastrofi naturali, popolazioni in fuga, oppure semplicemente contesti dove il sistema sanitario non riesce a sopperire alla grande richiesta e vi è un alto rischio di esclusione dalle cure, a carico di persone svantaggiate e vulnerabili.
Di fronte a questo scenario, si affianca la cooperazione con direzione di sviluppo: essa non ha l’intento di risolvere situazioni nell’immediato e nel breve termine, ma di programmare nel tempo un processo di empowerment dei sistemi locali.
È chiaro che le tempistiche si dilatano molto, poiché si parla di progetti con outcomes di lungo termine e spesso anche di difficile valutazione, data la grande variabilità dei fattori in gioco. In questo contesto inserisco volentieri l’Ong per cui sto prestando Servizio Civile, ovvero il Comitato Collaborazione Medica - CCM di Torino. Dal 1968 ci occupiamo (mi ci metto anche io anche se sono qui da poco, perché mi sento profondamente parte della squadra) di cooperazione internazionale improntata allo sviluppo. Perché? Per scelta.
Pur rispettando e condividendo la grande utilità dell’opera più sanitaria di nostri altri colleghi, si rende necessaria per una questione di completezza anche quella di affiancare a queste azioni lo stimolo a sviluppare un sistema sanitario locale efficiente con l’auspicio che un giorno il nostro intervento non sia più necessario.
Ponendoci questi obiettivi, la nostra metodologia di lavoro appare chiara: più che prestazioni sanitarie portate dall’Italia al Burundi (tanto per citare uno dei paesi d’intervento) ci occupiamo di formazione di personale sanitario locale. Infermieri e medici del posto, dunque, vengono affiancati da alcuni nostri professionisti sanitari italiani nello svolgere una pratica chiamata “training on the job”, ovvero la pratica pedagogica dell’imparare lavorando.
Vedete che allora anche i nostri tirocini curricolari universitari durante i 3 anni di corso hanno un senso?
In tutto ciò, vedo il ruolo di formatore che l’infermiere ha e deve avere nei confronti di altri colleghi, nel trasmettere un sapere intellettuale e non meramente tecnico, un saper essere che a parer mio non è tanto un valore morale ideale al quale tendere, ma piuttosto la voglia di prendersi carico di contenuti condivisi e costudirli come fossero davvero la nostra storia.
Vedo anche un altro aspetto che mi piace molto, ovvero il fatto che medici e infermieri di nazionalità diverse sono impegnati a lavorare fianco a fianco per contaminarsi nelle conoscenze e nelle competenze l’uno con l’altro.
Infatti, qualsiasi collega che decida di partire per svolgere la propria attività professionale con una ONG in uno dei Paesi a basso reddito si trova a dover far fronte a questioni nuove, siano esse di tipo culturale etico oppure scientifico, che mettono in discussione la nostra preparazione e che spesso sono di difficile risoluzione dato che non è semplice appellarsi alla clausola di coscienza.
Ci si trova a scontrarsi spesso e volentieri con un modo di trattare la malattia “diverso”: uso la parola diverso con un preciso valore simbolico, ovvero quello di non giudizio, in quanto un oggetto non cambia la sua forma, ma cambia solo in relazione allo sguardo di chi osserva.
Quindi, come ci si comporta di fronte a delle mamme che credono che per purificare il figlio alla
nascita debbano esporlo al fumo e al vapore di un falò?
Non è forse vero che, secondo l’art.4 del Codice Deontologico dell’Infermiere, “l'infermiere presta assistenza secondo principi di equità e giustizia, tenendo conto dei valori etici, religiosi e culturali, nonché del genere e delle condizioni sociali della persona”?
Ovvio, non è facile. Nessuno si rende conto di quanto siamo attaccati alle nostre idee, al nostro mondo, alla nostra cultura intesa come substrato sociologico fino a quando non si ritrova in un contesto in cui il contenitore e il contenuto sono diversi dal proprio.
Allora lì sì, io credo davvero che l’infermiere abbia un approccio senza eguali.
Non voglio usare la tipica frase “gli infermieri sono più bravi, più gentili dei medici” proprio per scagliare una provocazione personale: nonostante sia tutto molto lusinghiero, noi non siamo bravi e gentili, no.
Non lo siamo perché siamo anime pie, ma perché riceviamo una formazione relazionale e comunicativa non indifferente, perché ci sperimentiamo nel counseling e perché fa parte del nostro agire professionale e rientra nelle nostre competenze a pieno titolo.
Dove sta il nocciolo? Si nasconde nel fatto che noi possiamo fare la differenza quando una persona ci dice che vive le proprie illness e sickness in un modo che non comprendiamo, ma noi non la giudichiamo; non tanto perché crediamo veramente che il suo tipo di approccio possa aiutarla davvero, ma perché siamo capaci di ascoltare la persona che abbiamo di fronte e di accettare la sua versione della malattia e della cura.
Un’abilità che in un habitat “altro” come quello del continente africano è indispensabile per costruire un’alleanza con la persona che incontro in un rapporto di cura: un rapporto di fiducia basato sul raggiungimento di un fine comune, ovvero il ben-essere di ogni singolo individuo. Scusate se è poco.
Tuttavia, mi sono un po’ fatto prendere la mano nel raccontarvi il valore aggiunto e fondamentale che l’infermiere ci regala in un contesto di cooperazione internazionale, ma non mi sono dimenticato che vi voglio parlare anche dell’Italia.
La maggior parte delle organizzazioni non governative, infatti, presentano un filone di attività anche all’interno del proprio Paese, in questo caso l’Italia. Gli obiettivi sono spesso molto simili fra loro: generalmente, ci si occupa di sensibilizzazione della popolazione e di progetti per le fasce vulnerabili più vicine a noi, senza allontanarsi troppo da casa.
Spesso, dato il forte bagaglio di conoscenza che si sono portati dietro i numerosi anni di progetti internazionali di cooperazione, il background interculturale che queste associazioni offrono in un contesto di forti migrazioni come quello attuale è indispensabile. Non solo: la recente e attuale crisi finanziaria ha prodotto emergenze anche di tipo sociologico, demografico e identitario. Ci sono sempre più fasce vulnerabili, anche non straniere, che fanno i conti con un sistema che non è del tutto preparato ad accoglierli.
Cavalco l’argomento per introdurne un altro che mi sta molto a cuore: chi è l’Infermiere di famiglia e di comunità (IFeC)?
Stiamo sentendo parlare frequentemente nell’ultimo periodo di questa figura emergente che però spesso non trova ancora molto facilmente un risvolto lavorativo nel Belpaese.
La salute è uno “stare bene” talmente complesso che se si aggiungono pure le fragilità e debolezze recenti l’unica via che vedo possibile è quella di lavorare per e con la comunità. Riuscire a far emergere davvero i bisogni delle persone, farle partecipare alla costruzione di un processo condiviso di welfare che possa portare alla creazione di reti inter-personali e con i servizi stessi. Un po’ come in un conflitto, quando l’unione fa la forza.
L’obiettivo dell’Infermiere di Famiglia e di Comunità non dovrebbe essere questo?
Mi arrabbio sempre molto quando si pensa che basti fare una medicazione sul territorio anziché in ospedale e si possa parlare di un nuovo modo di concepire la sanità. È utilissimo, indubbiamente, ma non basta.
La sinergia fra diversi professionisti è necessaria e l’infermiere ha il suo posto. Non sto a ripetere i mille motivi per cui ce lo meritiamo e credo non ne abbiate bisogno, li sapete benissimo: si tratta solo di imparare a metterci davvero in discussione come professionisti. Ci piace tanto usare la parola “professione intellettuale”: beh, l’essere intellettuali prevede anche che il sapere che si ha non è strettamente tecnico, ma modellabile, sfruttabile e soprattutto utile e che quindi non dobbiamo sempre aspettare una soluzione, poiché abbiamo le carte in regola per crearla.
Si tratta di provare ad aggiungere competenze che fino a poco tempo fa non si abbinavano alla nostra professione: analisi, progettazione, monitoraggio, valutazione, ricerca sono solo alcuni degli ambiti che dovranno essere sempre più nostri per rispondere al meglio ai bisogni delle persone e anche per dimostrare che la nostra Laurea ci offre la possibilità di riflettere e di aprirci, non solo di eseguire.
Ti ho spiegato che cosa può fare un infermiere in una organizzazione non governativa, nonna?
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