Sono onorato, finalmente, di confrontarmi con un rappresentante dell’IPASVI; l’ultima volta che tentai, nel 1994 a Roma, fui cacciato fuori appena chiesi provvedimenti a seguito della diffida che l’ufficio legale IPASVI presentò contro l'Azienda Policlinico Umberto I.
Lo attendo, come avevo scritto nella mia precedente, a Roma, quando vuole; prenderò un giorno di ferie e il confronto lo faremo non davanti i suoi iscritti ma davanti a tutti gli infermieri italiani che al pari di quelli di Carbonia, hanno il diritto di conoscere la verità.
L’AADI disporrà una telecamera e il confronto andrà registrato senza interruzioni, così che chiunque possa verificarne la genuinità di quanto ripreso e, se Nurse24 è d’accordo, la registrazione verrà consegnata ad un giornalista di Nurse24 che potrà metterla in rete.
Sarò curioso di vedere come farà il Dott. Lebiu a smentire 60 anni di sentenze italiane sia ordinarie, sia amministrative che costituzionali.
Sarà un’impresa memorabile.
Riguardo il contenuto dell’ultima lettera, sinceramente, non comprendo quale tesi voglia sostenere il presidente IPASVI.
Poi mi spiegherà cosa ha fatto l’IPASVI a seguito della lettera che qui ho allegato.
Riguardo lo stralcio della sentenza riportata dal Dott. Lebiu, incomprensibile e arbitrariamente interpretata dallo stesso, ricordo una delle centinaia di sentenze, non del tribunale di Cagliari, ma della più importante Corte Suprema di Cassazione, (III sezione, 02 febbraio 2010 n. 2352) che ha così stabilito: “in una fattispecie di rapporto gerarchico professionale, quale è quello che ricorre tra il primario di un reparto ospedaliero di chirurgia pediatrica e l’aiuto anziano già operante nel reparto, rapporto che integra un contatto sociale dove la posizione del professionista dequalificato è presidiata dai precetti costituzionali (come evidenzia il punto 4.3 in relazione al punto 4.5. del preambolo sistematico delle SS.UU. n. 26972 del 2008), costituisce fatto colposo che configura illecito civile continuato ed aggravato dal persistere della volontà punitiva e di atti diretti all’emarginazione del professionista, la condotta del primario che nell’esercizio formale dei poteri di controllo e di vigilanza del reparto, estrometta di fatto l’aiuto anziano da ogni attività proficua di collaborazione, impedendogli l’esercizio delle mansioni cui era addetto. Tale condotta altamente lesiva è soggettivamente imputabile al primario, come soggetto agente, ed esprime l’elemento soggettivo della colpa in senso lato, essendo intenzionalmente preordinata alla distruzione della dignità personale e dell’immagine professionale e delle stesse possibilità di lavoro in ambito professionale, con lesione immediata e diretta dei diritti inviolabili del lavoratore professionista (espressamente richiamati nel citato punto 4.5 delle SS.UU. citate, cui aggiungiamo, sistematicamente anche gli articoli 1, 3 secondo comma, 4 e 35 primo comma della Costituzione, dovendosi considerare, per il presidio di tutela il lavoratore professionista alla stessa stregua di qualsiasi altro lavoratore e senza discriminazioni). Il danno ingiusto, cagionato direttamente dal primario, con i provvedimenti impeditivi dell’esercizio della normale attività, implica un demansionamento continuato di fatto (malgrado le pronunce amministrative di reintegrazione) e si pone in relazione causale con il fattore determinante della condotta umana lesiva, posta in essere dal primario. Così stabilita ed accertata, in tutti i suoi elementi, soggettivi ed oggettivi, la fattispecie da sussumere sotto la norma primaria che regola il fatto illecito (art. 2043 c.c.) il giudice del rinvio dovrà procedere alla congrua liquidazione dei danni patrimoniali e non patrimoniali consequenziali, rispettando il principio del risarcimento integrale (punto 4.8 SS.UU. cit.), evitando di compiere duplicazioni (punto 4.9), e considerando, ai fini della liquidazione congrua, la gravità della offesa (rilevante nel caso di specie) e la serietà del pregiudizio (punto 3.11. della SS.UU. citata). Quanto al ristoro dei danni patrimoniali, dovrà essere considerato il regime professionale vigente all’epoca dei fatti, e comunque la perdita delle chances economiche e di clientela in relazione alla distruzione dell’immagine nella comunità scientifica e nel mercato libero delle prestazioni professionali per la perdita di affidabilità scientifica e curativa”.
Quindi, senza manipolare le sentenze, riporto due stralci e precisamente:
1. costituisce fatto colposo che configura illecito civile continuato ed aggravato dal persistere della volontà punitiva e di atti diretti all’emarginazione del professionista cioè mobbing;
2. impedendogli l’esercizio delle mansioni cui era addetto cioè demansionamento (vedi art. 2103 C.C. e art. 52 del D.Lgs. 30.03.2001 n. 165);
3. perdita di affidabilità scientifica e curativa cioè danni risarcibili.
Ergo, com’è possibile sostenere che il demansionamento infermieristico non cagioni danni alla vittima e che non si possa attuare insieme al mobbing?
Com’è possibile sostenere che un infermiere che si ribella al demansionamento non possa subire azioni mobbizzanti dirette ad emarginarlo, escluderlo e allontanarlo dal posto di lavoro.
La confutazione delle sue teorie ce l’ha proprio dentro casa: proprio in questi giorni, quattro infermiere ex Nursind si sono rivolte all’AADI perché hanno perso una causa a Nuoro per mobbing che hanno voluto intentare nonostante le avessi sconsigliate per motivi tecnico-giuridici, non perché la questione fosse infondata.
Le colleghe sono sconvolte e straziate da specifiche patologie che sovente colpiscono le vittime di mobbing.
Al corso ECM esporrò anche la loro storia, una storia incredibile che accomuna molti colleghi sottoposti a martellante stress e umiliazioni.
Il coraggio di reagire e di combattere contro le ingiustizie, che ritengo particolarmente insito nei colleghi sardi, permette alle quattro coraggiose infermiere di non piegarsi davanti questi soprusi.
Il direttivo dell’AADI, grazie allo stimolo pervenutoci dal presidente IPASVI di Carbonia, si impegna a esporre il caso di mobbing che hanno subito le nostre quattro colleghe sarde, dimostrando che il mobbing è deleterio.
Purtroppo la reazione del Dott. Lebiu non fa che confermare che troppo spesso l’IPASVI si è asservito alle politiche di sfruttamento aziendale, difatti mi sembra di interloquire con il direttore generale della mia azienda e non con chi dovrebbe difenderci.
Colgo l’occasione per proporre un altro futuro confronto sul seguente tema: gli infermieri dipendenti subordinati, sono obbligati a pagare la quota di iscrizione all’IPASVI? Anche in questo caso garantisco un vivace scontro perché sono centinaia gli infermieri non iscritti che sono stati assolti dal tribunale penale dalle accuse dell’IPASVI e tra questi ci sono anch’io.
Riguardo ai suoi consigli sulla frequentazione del corso e sui contenuti dello stesso in relazione alla preparazione della colazione, mi duole informarla del suo clamoroso autogol perché l’articolo sulle colazioni l’ha pubblicato l’IPASVI e glielo dimostro allegandolo.
Noto con rammarico che non legge neppure quello che scrive l’organo ufficiale a cui appartiene.
Che fiducia potrebbero mai darle gli infermieri di Carbonia?
Legge le loro lettere?
Ah, dimenticavo ... il Dott. Lebiu ha tralasciato un piccolo particolare che non lo rende proprio trasparente: è stato presidente nazionale del sindacato Nursind.
Stranamente mi cita nella sua lettera come “strillone”, eppure non mi ha mai visto né conosciuto.
Che strano!
Le uniche volte che ho strillato è stato da sindacalista nursind.
Viste le sue amicizie, non è che per caso il presidente IPASVI di Carbonia è stato sguinzagliato da Nursind per paura di perdere gli iscritti anche a Carbonia?
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